Specchio
della psiche e della civiltà
GIUSEPPE PERRELLA
NOTE E
NOTIZIE - Anno XVIII – 30 ottobre 2021.
Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale
di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie
o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione
“note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati
fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui
argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione
Scientifica della Società.
[Tipologia del testo: SAGGIO BREVE/DISCUSSIONE]
(Ventesima
Parte)
40. Elisabetta I impronta un’epoca suscitando l’ammirazione
dei singoli e conquistando la coscienza del popolo. Sovrana illegittima,
abile manipolatrice, astuta opportunista, spietata giustiziera, Elisabetta I ha
saputo eccellere nelle arti diplomatiche e nelle abilità di governo come pochi
nella storia e, se non è assurta a modello assoluto di donna in grado di competere
con gli uomini e superarli nel più alto ruolo di comando nella gerarchia di uno
stato, è solo perché a quel tempo le donne di potere rilevanti per la storia
sono state numerose.
Papa Sisto V dichiarò: “Se non fosse un’eretica
varrebbe un mondo intero”[1],
e il cattolico ambasciatore di Spagna, a proposito dell’astuto mimetismo che
Elisabetta metteva al servizio della sua abilità di persuadere, attrarre,
sedurre e affascinare, raccontava: “Questa donna è posseduta da centomila
demoni, eppure finge con me che vorrebbe essere una monaca, vivere in una cella
e recitare il rosario da mane a sera”[2];
e poi scriveva al suo sovrano Filippo: “È molto legata al suo popolo, e ha fiducia
che esso sia tutto dalla sua parte, il che effettivamente è vero”[3].
In tante circostanze diverse, e per tante differenti
ragioni, la corte e il popolo avevano seguito Elisabetta con assoluta devozione
e condivisione di intenti. Anche se la sua popolarità viene attribuita da molti
storici all’aver ridotto le tasse, favorito il commercio e assicurato la pace, è
evidente che vi sia stato qualcosa di più di provvedimenti bene accetti in un
rapporto che pareva di amore reciproco. Quando vi furono attentati alla sua
vita, pregarono per lei pubblicamente impetrando la grazia della sua incolumità
anche i puritani che lei aveva perseguitato. Fu promossa dal popolo la
decisione di rendere festa nazionale e giorno di ringraziamento a Dio la
ricorrenza della sua ascesa al trono[4].
L’intesa era il frutto di un lavoro intenso e
costante: i rapporti con i sudditi erano parte integrante del piano di governo
di Elisabetta I, che faceva di parate, viaggi di ispezione e giochi pubblici,
altrettante occasioni di conoscenza diretta del maggior numero di persone
possibile: un sorriso, un porgere la mano al bacio con inchino e chiedere un
parere, un’opinione o un’impressione su quanto accadeva a un maniscalco, a un
cappellaio, a un fabbro o a un conciatore avrebbe prodotto un effetto
indelebile, perché ciascuno di costoro avrebbe raccontato per il resto della
vita di aver conversato con la sovrana. Si legge che qualcuno, approfittando
della possibilità, le faceva lunghe confidenze personali e lei ascoltava con
attenzione, senza mai mostrarsi annoiata[5].
Christopher Hatton, in un’efficace sintesi, afferma che in questo e in cento
altri modi “andò a pesca delle anime umane”[6].
Il suo scopo non era quello di un moderno politico che cerca il consenso
elettorale, ma era far breccia nelle coscienze per influenzare la mentalità e l’atteggiamento
dei sudditi, cercando di inculcare l’idea che la sola via giusta per la nazione
sia quella in cui la regina e il popolo camminano insieme. E, per parte sua,
Elisabetta faceva mostra di essere disposta a correggere la sua direzione di
marcia per venire incontro ai desideri della gente.
Se non possiamo affermare con certezza che le isole
britanniche siano state il luogo in cui si sia sviluppato più che in altre
realtà europee lo spirito di emulazione e la tendenza a conformare le proprie
idee e il proprio stile mentale a quelli del gruppo sociale e dell’aggregazione
nazionale di appartenenza, possiamo senza tema di smentita riconoscere l’assoluta
importanza attribuita dai filosofi inglesi all’identità collettiva e l’esistenza
in quella realtà di un “costume mentale di gruppo”, considerato da molti rilevante
almeno quanto i tratti caratteristici della personalità del singolo. Si afferma
infatti in questo secolo in Inghilterra quella cultura che darà luogo due secoli
dopo alle teorie psicologiche sulla mente collettiva[7].
Nel costituirsi di tale realtà, Elisabetta mi sembra
che abbia avuto un ruolo da protagonista assoluta, non semplicemente
incoraggiando l’emulazione del suo stile[8]
e di quello dei suoi collaboratori più devoti, scelti con cura e fortuna[9],
ma soprattutto promuovendo l’identificazione per appartenenza alla
nazione, alla casta, alla Chiesa Anglicana, al ruolo e al gruppo sociale di
riferimento, mediante la propaganda di un’immagine idealizzata dei membri di
tali aggregazioni, così da sollecitare il desiderio di uniformarsi per sentirsi
parte di un valore ideale, e accrescere la coesione nazionale.
L’ambasciatore di Spagna, forse deluso perché la
sovrana si mostrava sempre disponibile all’ascolto ma non seguiva mai i
consigli dei diplomatici stranieri, ebbe a dichiarare: “Impartisce ordini e fa
di testa sua in maniera assolutistica come suo padre”[10].
Probabilmente non aveva tutti i torti il rappresentante iberico, perché anche
il fedele segretario e consigliere William Cecil ebbe a lamentarsi di essere poco
ascoltato; in proposito abbiamo una testimonianza scritta della risposta della
regina al consigliere, quando lui provò a ingiungerle di non trattare più con
la Francia: “Signor segretario, penso di non voler più sapere di questa
faccenda; ascolterò le proposte del re di Francia. Non intendo lasciarmi più
legare a voi e ai vostri fratelli in Cristo”[11].
In questo caso, però, era in questione una differenza
di visione strategica, in quanto Cecil la sollecitava a sinergie ed alleanze
unicamente con paesi protestanti già amici, mentre la sua lungimiranza,
probabilmente favorita dalla sua formazione religiosa secondo la dottrina
apostolica romana, la induceva a conservare rapporti di cooperazione con le
grandi potenze cattoliche continentali, rifuggendo dal confinarsi in un blocco
protestante minoritario e inferiore per risorse economiche, potere politico e potenza
militare. E sappiamo che la sua strategia “ecumenica” si rivelò vincente,
perché l’Inghilterra da paese povero qual era alla sua ascesa al trono divenne
tra i più ricchi e potenti del mondo alla fine del suo regno. D’altra parte,
Cecil non se ne ebbe a male per tutte le volte in cui era rimasto inascoltato e
la considerò “la donna più saggia che sia mai esistita, poiché capiva gli
interessi e le inclinazioni di tutti i prìncipi del suo tempo, ed era così
perfetta nella conoscenza del suo dominio, che nessun consigliere avrebbe potuto
dirle qualcosa che prima ella già non sapesse”[12].
Cecil era spesso affiancato dal guardasigilli Nicholas
Bacon, padre di Francis o Francesco Bacone, il filosofo della rivoluzione
scientifica[13], dal
consigliere privato e tesoriere Francis Knollys,
dagli ambasciatori Throckmorton e Randolph, e
soprattutto da Sir Francis Walsingham segretario di
stato e uomo di raffinata sensibilità che, non solo curò per conto della regina
l’immagine artistica del regno e la crescita dei grandi talenti d’arte al punto
da meritare da Edmund Spencer la denominazione di «Grande Mecenate del suo
tempo», ma organizzò anche a protezione della sovrana una rete segreta di
spionaggio estesa da Edimburgo a Costantinopoli, nelle cui maglie rimase presa la
regina di Scozia. È interessante notare che quella concezione di rete di
spionaggio fu conservata nella struttura dei servizi di sicurezza
britannici nei secoli successivi, fino a quando Ian Fleming servì come
ufficiale della Royal Navy e poi, da scrittore, creò il personaggio di James
Bond, l’agente segreto 007.
L’approfondimento su Elisabetta I ha importanza non
solo per riconoscere i segni e gli effetti del processo di anglicizzazione dell’Europa,
ma anche per comprendere il peso che ha avuto il suo modello di governo
monarchico sugli esiti della controversia epocale circa il potere temporale del
Papa, in termini di coscienza cristiana, filosofia religiosa e opportunità
politica.
Esistevano infatti, in quegli anni, due fronti
contrapposti: il primo sosteneva che tutto il potere temporale, anche in
materia religiosa, dovesse essere nelle mani dei sovrani cristiani, protestanti
o cattolici che fossero; il secondo difendeva il potere temporale dei
pontefici, adducendo a prova del suo valore provvidenziale l’istituzione della Congregazione
della Santa Inquisizione Universale, che portò sotto il controllo del Papa
l’Inquisizione gestita dai sovrani, ponendo fine a veri e propri massacri
perpetrati attraverso migliaia di condanne, come quelle emesse da Torquemada
per conto di Ferdinando e Isabella di Castiglia, di cui ho detto in precedenza.
Quando nella controversia interviene Thomas Hobbes,
esaminando nel Leviatano specificamente e in dettaglio tutte le tesi a
favore del potere temporale esposte dal Cardinale Roberto Bellarmino nei cinque
libri del suo De Summo Pontefice, il riferimento implicito al buon
governo è costituito dal modello elisabettiano, apparentemente capace allo
stesso tempo di garantire la vita cristiana nel benessere e non permettere il verificarsi
di casi come quello di Galileo Galilei.
Su questa base, Hobbes non è tentato dall’idea di
accettare il potere temporale della Chiesa di Roma per mitigare le derive
giustizialiste dei sovrani che si arrogassero il diritto di sbarazzarsi dei
nemici attuali o potenziali dell’ordine costituito, condannandoli a morte per
opinioni religiose, in quanto tale rischio in Inghilterra non si correva. Allora,
nel Leviatano, il filosofo può prodursi in una magistrale esegesi
evangelica che dimostra come Gesù Cristo abbia conferito a Pietro il ruolo di
capo spirituale nel governo delle anime, secondo una genealogia di missioni originata
dal Padre Celeste che manda il Figlio, il quale incarica Pietro e i suoi
successori del compito di responsabile della salvezza delle anime e non di
giudice dei peccatori sulla terra o del ruolo di sovrano a capo di eserciti a
tutela di interessi materiali[14].
Proviamo ora a osservare più da vicino Elisabetta I,
attraverso i materiali storici.
Le fonti biografiche sono in massima parte apologetiche,
encomiastiche e celebrative, ma quelle che esulano da questo novero agiografico
riportano episodi ed aspetti della personalità della sovrana così radicalmente
in contrasto, che non è possibile siano vere entrambe le versioni. Così, anche nelle
trattazioni storiche più autorevoli che ho consultato, si seguono pedissequamente
le idealizzazioni laudatorie, alle quali sono accostati elementi incompatibili
provenienti dalle voci discordi, riproducendo in tal modo, senza risolverle, le
contraddizioni delle fonti.
Se, quando la sovrana era viva e la sua corte operava
come un involontario ma efficiente apparato di propaganda, non doveva essere
facile stimare la fondatezza delle storie sulle virtù e i meriti fatte
circolare dalle dame di palazzo, l’impresa di distinguere il vero dal falso, l’autentico
dal contraffatto, il pettegolezzo dalla calunnia, ora che sono passati più di
quattro secoli, può considerarsi del tutto impossibile.
Con questa consapevolezza, ho scelto di tralasciare molti
contenuti privi di fonte di cui sono ricche le biografie romanzate e dare
credito alle affermazioni concordi, mai smentite dalle principali fonti storiche
e basate su lettere, carteggi ed altri documenti risalenti agli anni della vita
di Elisabetta I, sperando che l’attendibilità degli studiosi prescelti sia all’altezza
della loro fama, e proponendo, col nome dell’autore – così che il lettore ne possa
dedurre da sé il grado di attendibilità – alcuni giudizi necessari a farsi un’idea
della personalità e di qualche tratto dello stile caratteriale e
comportamentale.
Comincio subito con un eloquente esempio di come nella
descrizione della dimensione mentale della monarca le fonti agiografiche abbiano
influenzato stile e contenuto anche di storici del calibro di Will e Ariel Durant,
che offrono questa perla: “Di che genere era la mente sua? Possedeva tutto il
sapere che una regina potesse sopportare con grazia”[15].
Ma in fondo si può comprendere, anche se non lo si
condivide, l’atteggiamento di chi è tentato per simpatia di conferire un alone
di perfezione biografica alla protagonista di una vicenda umana a dir poco
fiabesca. La storia narra infatti di una serafica principessa di buoni
sentimenti esclusa dalla successione, durante il regno della perfida
sorellastra “Maria la sanguinaria” (Bloody
Mary), perché illegittima, ma che alla morte della sorellastra si vede
recapitare i gioielli della corona: fatto interpretato dai saggi di corte come simbolica
designazione di erede al trono da parte della defunta. E, come nella trama di una
favola, la fanciulla serafica e soave a venticinque anni viene incoronata
regina col tripudio del popolo e diventa, con Mary Tudor, Maria Stuarda e Caterina
de’ Medici, una delle quattro donne più potenti del mondo.
Da ragazza era stata un’allieva attenta, studiosa e
brillante, secondo il suo celebre precettore Roger Ascham,
che scrive: “Parla il francese e l’italiano altrettanto bene dell’inglese, e
spesso mi parlava facilmente e bene in latino, e passabilmente in greco”[16].
Elisabetta continuò a studiare le lingue e tenne un carteggio in francese con
Maria Stuarda, comunicava in italiano con un ambasciatore veneto e fu sentita
rimproverare vigorosamente in latino un inviato proveniente dalla Polonia. Quando
un ambasciatore le fece i complimenti per come fosse fluente nel parlare lingue
diverse, apprezzando l’insegnamento di Ascham, lei
rispose che “non era una meraviglia insegnare a una donna a parlare; molto più
difficile sarebbe stato insegnarle a tenere a freno la lingua”[17].
Non sapremo mai se e con quanta autoironia scelse per
suo motto Video et Taceo.
L’aspetto rilevante era che, a differenza di molti re
e principi del suo tempo, non ricorse mai a interpreti e intermediari,
trattando sempre direttamente e personalmente le questioni politiche e religiose,
in tal modo potendo sempre ricorrere alle sue abilità nel conoscere e
influenzare la psicologia dell’interlocutore. Conosceva davvero bene la
struttura grammaticale delle lingue, infatti: “Tradusse Sallustio e Boezio e
sapeva abbastanza di greco da leggere Sofocle e tradurre una tragedia di
Euripide”[18]. Compose
liriche e musiche ed era stata una diligente allieva di tecniche strumentali,
riuscendo a suonare il liuto e il virginale discretamente, anche se era
consapevole di non avere un talento da musicista e, con simpatica capacità
autocritica, rideva e faceva ridere gli altri parlando delle sue doti. A questo
proposito non posso tacere, perché menzionato in tutte le biografie che ho consultato,
la frequente tendenza della regina Elisabetta a scoppi di risa e risate di
gusto.
Si esercitava anche nella scrittura, e i suoi testi
non erano mai banali, denotando acume e originalità; tuttavia, la sua prosa non
era mai fluida e il suo periodare risultava spesso farraginoso e contorto,
richiedendo per essere letto la stessa fatica fatta da lei per scriverlo. Vergava
di suo pugno le lettere e redigeva personalmente i discorsi ma, anche se
qualche storico li considera “attraenti per eloquenza e carattere”, il giudizio
pressoché unanime è che fossero “complicati e affettati”[19].
Amava la letteratura e il teatro in tutte le sue
forme, dalla declamatoria alla rapsodica, dalla commedia alla tragedia, e
selezionava personalmente coloro che si sarebbero esibiti a corte, accettando coloro
che mostravano di avere più talento di lei. Non è un caso che i vertici
raggiunti dalla letteratura inglese in quel periodo non siano stati più
eguagliati, e che il teatro di Shakespeare sia fiorito presso la sua corte, grazie
alla protezione sua e di Leicester dai numerosi attacchi sferrati dai puritani.
Ma lo spettacolo preferito da Elisabetta I era una
complessa forma di rappresentazione in parte interattiva, che teneva insieme
con un filo narrativo, filosofico e burlesco le abilità di specialisti di tutte
le arti di rappresentazione, dalla drammatica alla tersicorea, dall’acrobatica
al mimo, che fondeva forme allegoriche dinamiche con figure e parole dirette
allo spettatore, in un caleidoscopico intreccio di teatro-danza dai
fantasmagorici costumi e giochi di abilità e prestigio, con travestimenti continuamente
cangianti e macchine per creare effetti tali da stupire e impressionare
chiunque. Si trattava dell’ultima geniale invenzione importata dall’Italia: una
forma di arte multidisciplinare espressa come spettacolo e ludo partecipativo,
che univa le abilità forgiate ed esercitate quotidianamente con lungo tirocinio
alla capacità di improvvisazione espressa con estemporanee variazioni sul tema,
adattate al pubblico e alle circostanze. Poiché tutti gli artisti erano in
costume e mascherati, in Inghilterra si diede il nome di “Masques” a questa
nuova forma di spettacolo[20].
Non possiamo escludere che il fascino esercitato dall’esperienza
dei masque sulla regina abbia contribuito a convincerla del potere
esercitato da abiti meravigliosi e gioielli stupefacenti sulla mente delle
persone incontrate nella vita sociale. Il lavoro quotidiano necessario a
compiere il suo look era paragonabile all’esercizio di una vera e
propria arte minore: dall’acconciatura alle modifiche degli abiti, con sete e
broccati orientali modellati in stile italiano, dovevano essere studiate per l’abbinamento
con gioielli sempre nuovi, che portava nei capelli, alle orecchie, al collo, sul
petto, alle braccia, ai polsi, alle dita, sugli abiti e sulle calzature.
Si faceva regalare gioielli dai postulanti, da coloro
che aspiravano a diventare Lord o ad assumere altre cariche, così come dagli
invitati alle feste che dava in occasione dell’Ascensione, del Natale, del
Capodanno, dell’Epifania, della Candelora e negli ultimi giorni di Carnevale.
Quando doveva punire dei ricchi ribelli per primo provvedimento sequestrava i gioielli
delle signore, ma aveva riempito i suoi scrigni anche con i gioielli della
Corona di Scozia, di Borgogna e Portogallo. A un alto prelato che aveva
deplorato la sua passione per gli ornamenti intimò di non toccare più quel
tasto, a meno che non avesse deciso di andare in cielo prematuramente[21].
Alla sua morte lasciò oltre duemila abiti, tutti degni
delle grandi occasioni. Diceva di amare il fruscìo dello sfarzo. Durante la
bella stagione andava in visita con tutta la corte in lettiga aperta o a cavallo,
facendo una parata che diventava un avvenimento. Le città visitate vestivano i
loro maggiorenti di seta e velluto per darle il benvenuto con discorsi e doni, “i
nobili andavano in rovina per riceverla. I Lord indebitati pregavano che non
passasse da loro”[22].
Parca e morigerata nel mangiare e nel bere si teneva
in forma con lunghe cavalcate e dedicandosi alla caccia con molto impegno e
perizia, ma soprattutto amò la danza, che praticava in gioiosa allegria quasi
quotidianamente e, come si legge, “prillò sino a sessantanove anni”[23].
Eppure, la sua intensissima esistenza non fu mai
frivola, e nei suoi cinque palazzi reali trovava sempre il tempo di appartarsi
in biblioteca a studiare. Sosteneva di aver letto tutti i libri più importanti
per i prìncipi della cristianità. Da ragazza studiava ogni giorno teologia, da
regina lo studio quotidiano fu quello della storia.
Alcuni biografi dipingono l’alto sentire e la
raffinatezza di spirito come doti naturali della regina, ulteriormente
sviluppate da un’educazione classica volta alla ricerca della saggezza e della
bellezza della bontà, in una sorta di kalokagathia interiore; altri,
invece, dicono che imprecava come un pirata e sputava intorno a sé senza
ritegno[24].
Per affrontare una questione ampiamente documentata,
discussa e dibattuta, soffermiamo l’attenzione su una condizione del corpo implicita
in ogni giovane donna rispettabile, debitamente ed educatamente taciuta per verecondia
anche nelle conversazioni private, e che invece Elisabetta aveva dichiarato ed
ostentato in ogni comunicazione istituzionale, facendone un potente strumento di
politica estera: lo stato verginale.
Proprio a causa del peso politico che seppe conferire
al suo essere “vergine regina”, numerosi storici hanno condotto sistematiche ed
accurate ricerche negli archivi e tra la miriade di carte elisabettiane custodite
in biblioteche e palazzi per comprendere più a fondo i termini della questione.
Froude scrive che la verginità regale era ritenuta così
importante che due diplomatici spagnoli, intendendo diffamare la giovane sovrana,
presero a cercare prove che mentisse al riguardo e, non trovandone, giunsero a
conclusioni che le facevano onore[25].
Thornton è tra gli storici che sono riusciti a
reperire gli scritti più significativi, perché ha trovato il carteggio in cui
Ben Johnson riferisce a Drummond di Hawthornden i segreti
rivelati alla corte dal medico della regina: “Aveva una membrana che la rendeva
inadatta all’uomo … le fu proposto da un chirurgo francese un’incisione, ma la
paura la trattenne”[26].
La membrana di cui parla Ben Johnson non era altro che l’imene, che hanno tutte
le donne, semplicemente si trattava di un caso di imene imperforato, che oggi
sappiamo essere relativamente frequente[27].
Il medico, per imperizia al riguardo, ritenne che quella condizione fosse di
ostacolo al parto e sconsigliò il matrimonio. Qualcosa era trapelata e Camden
nei suoi Annales del 1615 racconta: “Il popolo maledisse il medico della
regina, Huic, per averla dissuasa dal maritarsi per
via di qualche suo impedimento o difetto”[28].
Nel 1559 Elisabetta aveva pubblicamente espresso il
proposito di rimanere vergine[29],
ma sette anni dopo promise al Parlamento: “Mi mariterò non appena possa farlo
convenientemente … e spero di avere bambini”[30].
La castità, che ogni buon cristiano conserva fino al
matrimonio perché concepisce la sessualità quale dono esclusivo di sé per la partecipazione
procreativa al progetto divino sull’uomo, era sbandierata dalla sovrana come
valore della persona, prova diretta della sua temperanza, prova indiretta
del possesso delle altre virtù cardinali, espressione del suo essere una strong
mind e garanzia di fedeltà e perseveranza, che le conferivano anche l’alone
potenziale di perfetta moglie ideale.
In breve, la corte divenne affollata da una pletora di
postulanti stranieri, portatori di doni per conto di principi e regnanti di ogni
paese che aspiravano alla mano della virginea regina.
Walter Raleigh diceva che aveva l’incedere di Venere,
cacciava come Diana, cavalcava come Alessandro, cantava come un angelo e sonava
come Orfeo[31]. Raleigh,
capitano di eserciti, marinaio, avventuriero, studioso secondo l’ideale italiano
del poliedrico uomo rinascimentale e fedelissimo servitore innamorato della sovrana
dedicò la prima colonia inglese d’America a Elisabetta, chiamandola in suo onore
“Virginia”[32].
Si vuole che l’assedio dei pretendenti alla mano regale,
e dunque al trono d’Inghilterra, sia durato per un quarto di secolo; leggiamo
cosa scrive un ambasciatore dell’epoca: “Siamo qui in dodici ambasciatori tutti
in gara per la mano di sua maestà; e sta per arrivare il duca di Holstein, come
postulante per il re di Danimarca. Il duca di Finlandia, che è qui per conto del
fratello del re di Svezia, minaccia di ammazzare l’uomo dell’Imperatore, e la
regina teme che si taglino la gola a vicenda sotto i suoi occhi”[33].
Elisabetta astutamente, per non averlo come nemico, lasciava sperare Filippo II
di Spagna, che mirava a sottomettere l’Inghilterra alla Spagna per recuperare l’egemonia
perduta; la sovrana prese ancora più tempo con Carlo IX di Francia, tanto che
dopo oltre due mesi e mezzo non aveva fornito una risposta e l’ambasciatore
francese ebbe a dire: “Il mondo è stato fatto in sei giorni, e lei ha già
trascorso ottanta giorni, senza ancora decidere”. Al che, la sovrana replicò
che il mondo era stato opera di un artista più grande di lei[34].
Ma, al di là delle battute riportate dai contemporanei,
il delicato rapporto con la Francia merita una precisazione relativa a una
questione spesso trascurata nelle biografie della sovrana, ma del massimo peso
politico. Circa un secolo prima di questi eventi si era conclusa con la
vittoria dei Francesi la Guerra dei cent’anni tra Inghilterra e Francia,
in cui si impiegarono per la prima volta armi da fuoco in campo aperto con massacri
ad ogni battaglia ed eventi che avevano profondamente segnato i rapporti tra i
due regni, le cui conseguenze problematiche erano ancora presenti quando Elisabetta
ascende al trono; basti pensare, in proposito, al caso della cittadina francese
di Calais rimasta inglese fino al 1559. All’origine dei 117 anni di guerra vi
era stata la rivendicazione della corona di Francia da parte di Edoardo III d’Inghilterra,
quale nipote di Filippo IV.
Ebbene, quando Elisabetta I viene incoronata, nella solenne
cerimonia è proclamata Regina di Inghilterra, Irlanda e Francia, all’insaputa
dei Francesi.
La mente strategica della figlia di Enrico VIII e Anna
Bolena mutò il rischio di assoggettare il regno ad altre potenze diventando regina
consorte di un monarca straniero, nel vantaggio di realizzare alleanze de facto
con gli stati, attraverso un gioco di seduzione con i loro sovrani, ridotti all’attesa
dipendente dalla volontà dell’amata.
Per restare alla Francia, Elisabetta pose gli occhi sul
figlio di Caterina de’ Medici ed Enrico II, ossia l’appena sedicenne Francesco
di Valois Duca di Alençon, perché ritenne che, a
motivo della sua giovane età, si sarebbe lasciato facilmente influenzare e manipolare,
accettando di assoggettare a lei il suo paese. Grazie a un artificio
comunicativo posto in essere dai suoi diplomatici, riuscì a fare apparire alle
corti europee e ai suoi pretendenti che era stato il giovane, a motivo di un innamoramento
ideale, plausibile perché non raro tra gli adolescenti, a chiedere di
conoscerla.
Quando si accorse che il ragazzo aveva già precisi e
fermi intendimenti spirituali e politici, e appariva tutt’altro che manipolabile,
lo rimandò indietro dicendo che non le piaceva perché aveva il naso butterato[35]
e, inoltre, era cattolico e troppo giovane per lei trentasettenne.
Cinque anni dopo, quando la politica estera francese sembrava
sfuggirle di mano, decise che il naso del ventunenne Francesco, divenuto nel frattempo
anche duca d’Angiò, non aveva più nulla di sgradevole e così invitò a Londra il
Principe di Francia, ultimo dei figli di Caterina de’ Medici e fratello di Carlo
IX da lei illuso in precedenza. Elisabetta si dichiarò sensibile al fascino del
giovane e cominciò così un flirt, con lui e con la Francia, durato altri cinque
anni.
La regina ebbe un grande amore che tenne segreto fino
al 1562, quando credette di essere in punto di morte: confessò di aver sempre
amato Lord Robert Dudley e, dopo aver disposto che fosse nominato protettore
del regno, chiamò Dio a testimone che fra loro non c’era mai stato nulla di
sconveniente[36].
Il giuramento voleva porre un sigillo su una vicenda dolorosa
che aveva indotto illazioni calunniose: Dudley era sposato con Amy Robsart, ma non dimoravano insieme perché lui viveva a Windsor,
dove era con la regina mentre la moglie, cadendo per le scale a Cumnor Hall, morì. I diplomatici stranieri fecero circolare
la voce che si era trattato di una specie di irrevocabile annullamento di un
matrimonio che ostacolava i piani della regina; anche se fu subito provato che
si trattava di un sospetto ingiusto, Elisabetta decise di tener lontano Dudley
per non alimentare ulteriori dicerie.
Come è evidente, la continuità tra personale e
politico è assoluta nella vita della sovrana, ed è la conseguenza della sua
decisione di eliminare quella barriera tra pubblico e privato, tra ruolo
sociale e soggettività affettiva che, già presente e paradigmatica quasi ad
ogni livello della società, aveva rappresentato lo storico presupposto
necessario all’impiego del potere di suggestione e di evocazione esercitato dall’articolata
dimensione simbolica della regalità.
Il potere dei re era giocato sulla distanza,
intesa come vuoto incolmabile se non in modo effimero da costruzioni
immaginarie, e in grado di suggerire una differenza essenziale tra colui che ha
potere di condannare a morte e tutti gli altri. Il silenzio abituale sulla vita
privata – di cui si comunicavano solo gli effetti in grado di migliorare l’immagine
pubblica – e, soprattutto, l’inavvicinabilità rituale dai tempi del
Sacro Romano Impero, alimentavano nel popolo un senso di soggezione per
alterità, fino ad evocare l’inconsapevole tendenza al rispetto sacro,
facilitando il riconoscimento di autorità e l’obbedienza per sottomissione.
Elisabetta aveva deciso, dal giorno stesso dell’incoronazione,
di rinunciare all’uso tradizionale della distanza, con tutto il potere
di suggestione evocato da quell’estraneità del sovrano che ne
rappresenta anche l’alterità dalla vita affettiva – che invece conferisce
senso alla persona comune – preferendo la conoscenza interpersonale, in
quanto confidava enormemente nelle proprie risorse nel vis-à-vis e stimava
molto più produttivo e conveniente un rapporto umano nel registro del
reale che un rapporto di ruolo nel registro del simbolico.
Naturalmente non si trattò di una scelta assoluta e
costante, e proprio il gioco di entrata e uscita dal ruolo di persona
che dispone di poteri straordinari, costituiva una leva strategica da lei sempre
impiegata, tanto nelle tattiche seduttive della relazione personale quanto nella
tecnica del rapporto diplomatico. Quando la circostanza lo richiedeva, sapeva mostrarsi
austera e solenne, al punto da incutere rispettoso timore anche in alcuni dei collaboratori
più stretti. E, nonostante avesse fama di buona ascoltatrice, in alcune drastiche
decisioni non volle sentire ragioni, come quando si mostrò irremovibile e sorda
a ogni supplica lasciando languire e morire nella Torre di Londra Lady Catherine
Grey[37].
Un aspetto del carattere di Elisabetta è reso bene da
un aneddoto narrato da Aubrey, ma di pubblico dominio fin dall’accadere del fatto:
il Conte di Oxford Edward de Vere era onorato di poter porgere il suo omaggio
di nobile della città più colta del regno all’amata regina e, nella solenne occasione
in cui questo ambìto privilegio gli veniva concesso, si appressò con trepido entusiasmo
al cospetto della maestà reale, ma nell’atto di inchinarsi, per l’intensa emozione,
non riuscì a trattenere un sonoro peto. La profonda vergogna e l’intenso
disagio che assalirono Edward de Vere lo indussero, dopo aver abbandonato il
consesso, a lasciare l’Inghilterra e a rimanere in viaggio per sette anni. Il
tempo trascorso era stato così lungo da aver visto tanti cambiamenti a corte e
nel paese. Quando finalmente tornò in patria, la regina lo convocò in udienza di
corte per dargli il bentornato alla presenza dei suoi pari e, appena lo vide
giungere, lo accolse con grande cordialità, esclamando: “Mio Lord, ho dimenticato
il peto!”[38].
Prima di conoscere bene Lord Robert Dudley e
innamorarsene, per i servigi che questi aveva reso alla corona, decise di
donargli una contea. Alla solenne cerimonia nella sala del trono, alla presenza
degli stati maggiori, della corte, di rappresentanti del parlamento e di dignitari,
nobili e diplomatici stranieri, al momento dell’investitura Dudley si
inginocchiò e chinò il capo davanti alla regina, quasi in un atto di
contrizione per un rito celebrato con tutti i crismi della sacralità, e lei, Elisabetta,
con incedere solenne, si chinò e, tra lo stupore di tutti, gli fece il
solletico sulla nuca[39].
Non una generica trasgressione del protocollo, ma come
uno sberleffo, ovvero l’improvvisa irruzione del ridicolo nella solennità
rituale tendente al sublime, che la regina aveva fatto nella piena
consapevolezza della molteplicità di significati che poneva in questione, primo
fra tutti: posso fare anche questo. Donare una contea non vuol dire solo
cambiare la vita di una persona e della sua famiglia, ma mutare le sorti di
generazioni di discendenti; un evento che entra nella storia e conferisce nuova
identità, ma chi ha il potere di porlo in essere segnala ai membri dell’autorevole
consesso, idealmente rappresentanti tutto il popolo, che lo considera per sé
stessa un piccolo fatto ordinario che non trasforma un suddito in un
rispettabile conte e non gli risparmia la burla del solletico.
È interessante notare come Elisabetta impiegherà lo statuto
di eccezione proprio della regina, in quanto soggettività unica e
differente da ogni altro, in funzione della costituzione di sé stessa come autorità
super partes, che pone sullo stesso piano tutte le fazioni religiose,
filosofiche o politiche purché sottomesse a lei e alle leggi da lei approvate.
Il modo acuto, e quasi geniale in senso politico, col quale interpreta questo
ruolo per dirimere le controversie apparentemente insanabili innescate nel
paese dalla Riforma protestante, le consentiranno, come vedremo più avanti, di
governare con successo la transizione verso una nuova confessione religiosa di
stato, sedando tutti i conflitti tra l’agguerrita militanza protestante e la
granitica maggioranza cattolica del paese.
Elisabetta dichiarava di credere fermamente nella
libertà di coscienza ma di ritenere con altrettanta fermezza necessario un
governo superiore all’amministrazione parlamentare, concentrato nelle sue mani
e condotto col freddo calcolo delle ragioni di stato appreso dalla lettura di
Machiavelli. Per la prima volta introduce nella filosofia di governo la
dichiarata scissione tra coscienza individuale, quale intoccabile dimensione
privata, e coscienza del cittadino quale espressione pubblica della
volontà di sottomissione alla regina e alle leggi, imponendo così la regola
dell’ipocrisia dei dissenzienti.
Dalla strategica soluzione elisabettiana di porre
sullo stesso piano tutte le parti sociali, dalle lobbies nate in seno
all’aristocrazia mercantile ai rappresentanti di banche, comitati d’affari,
imprese religiose e fazioni politiche, origina la moderna prassi dello stato laico
al di sopra delle parti[40],
che ha sostituito l’etica pubblica fondata sulla morale cristiana con il politically
correct.
La riflessione psico-antropologica sulla sostanza dello
stile della regina ci rivela un nucleo di sensibilità arcaica, che vuole
il valore della soggettività del capo superiore a ogni legge, in quanto
le norme in quel modo di intendere primitivo esistono per il controllo
sociale e non hanno un senso astratto, assoluto e superiore, secondo la concezione
di astrattezza e generalità della norma che sarà di Hegel, perché
sono al servizio dell’esercizio del potere da parte di un singolo, come accadeva
nell’organizzazione tribale e ancora al tempo dei chiefdoms.
La legge morale è per definizione superiore
alle contingenze, alle convenienze e agli interessi del singolo, e la cultura
cristiana dell’Europa, che origina dalla Legge ebraica di sottomissione a
Dio uguale per tutti gli uomini e formulata già tredici secoli prima della venuta
di Cristo, è in assoluta antitesi con la pretesa di un capo che si ritenga
superiore ad ogni prescrizione e non soggetto alle leggi, e pretenda di essere
idolatrato in ragione del potere che esercita.
Una simile tendenza psichica di fondo, probabilmente
in gran parte inconsapevole, non poteva trovare migliore espressione della scelta
di Elisabetta I di autonominarsi capo de facto della Chiesa Anglicana, così
da liberarsi dell’autorità morale del Papa, eliminando ogni superiore gerarchico
dalla faccia della terra o, meglio, dalla sua rappresentazione cosciente del mondo.
E questo è il punto nodale: la regina ha l’abilità di
entrare nella dimensione immaginaria del popolo, con le forme e le storie
che veicolano la sua rappresentazione della realtà, al punto da
ottenere che la sua versione diventi fatto e pensiero condiviso
del mondo reale.
Tutto ciò che appartiene alla corte elisabettiana è
fatto ad arte, e ogni sala dei cinque palazzi, ogni padiglione, ogni parco è
set di una rappresentazione al centro della quale, presente o assente che sia,
è sempre da porsi il personaggio della regina, concepito nei minimi particolari
per apparire come un dream come true, un sogno
divenuto realtà, che regge il senso di tutta la struttura spazio-temporale di rapporti:
Elisabetta non si è limitata all’elaborazione di una proiezione sociale
idealizzata, estetizzata e sublimata di sé stessa, che già da sola è spettacolo
in grado di rendere pubblico muto, immoto e affascinato ogni presente, ma ha
assunto il ruolo di regista di tutta l’azione sul palcoscenico della storia.
Credo, tuttavia, che sarebbe un errore considerare la
vita di corte come una grande commedia o uno spettacolo di masque, solo
perché il gioco dei ruoli cangianti, come di quelli fissi, richiede spesso la
mediazione di una maschera che semplifica con cruda immediatezza la parte di
senso offerta alla relazione, celando senza annullare la complessità
identitaria di ciascuno; sarebbe un errore, credo, perché si tratta dell’opposto
del teatro: qui è la realtà che gioca col linguaggio dello spettacolo; è la
vita vera che compie il proprio tempo e pone in gioco le proprie istanze attraverso
le forme materiali convenute di un immaginario realizzato.
41. All’alba al porto della Rochelle sulle tracce
di una storia diventata leggenda. Anche i protagonisti che conferiscono
alla storia i tratti della propria fisionomia politica sono espressione del
tempo in cui vivono, e pertanto, per sciogliere il nodo della reciprocità, è opportuno
e forse necessario conoscere gli aspetti più rilevanti del mondo circostante
nel segmento diacronico corrispondente ai giorni della loro vita.
L’insegnamento accademico della storia di questo
periodo offre uno spunto interessante quando richiama l’attenzione su un
cambiamento epocale senza precedenti: fino al 1500 affermare il valore della
marineria di una nazione, come era stato per le nostre repubbliche marinare,
voleva dire ottenere il riconoscimento di un ruolo politico e militare nel Mediterraneo;
dal 1500, o virtualmente dal 1492, cambia tutto con il costituirsi del ruolo di
potenza atlantica, ossia uno stato con un naviglio che, dopo aver
affrontato viaggi e battaglie sull’Oceano Atlantico, abbia affermato il proprio
diritto sulle terre d’America. Cambiamento di dimensioni incomparabili nella
storia, in termini geopolitici, economici e militari; ma ciò che maggiormente
mi interessa è il mutamento dell’etica di parte dei popoli, e soprattutto dei
loro governanti, associato a questi eventi.
Immergiamoci in quel tempo e andiamo con la mente, alle
prime luci dell’alba, sulla banchina del porto calvinista francese
anticattolico della Rochelle dove sotto la copertura di una militanza ideologica
si armavano navi da guerra camuffate da grandi natanti civili, detti drakkar, col nome suggestivo delle imbarcazioni dei
Vichinghi, ma in realtà velieri di ultima generazione, insuperabili per velocità.
Le nebbie della notte cominciano a diradarsi, mentre si sentono i primi
richiami degli uccelli acquatici e si intravvedono i primi voli.
Sono accese le lanterne delle officine di porto e delle
locande dei marinai, dove si affaccendano, in un via vai di uomini coperti da
mantelli e cappelli a falde larghe con lunghe spade al fianco, tanti passeggeri
che, prima dell’imbarco, bevono boccali di vino cotto o latte caldo con acquavite,
all’uso del luogo, dove non è ancora giunto il costume fiorentino della cioccolata
calda e del caffè. Ma tutti prestano attenzione a figure altere, ciascuna
circondata da vari uomini, che incedono facendo risuonare il loro passo sul
basolato, consapevoli di avere la responsabilità della vita di tanti marinai e
di una rischiosa missione segreta: sono i capitani dei velieri che hanno appena
mostrato alle autorità portuali le lettere di corsa, ovvero l’autorizzazione
di stato a compiere quel particolare genere di azioni navali.
Al molo, dove presso botti che fungono da tavoli
siedono funzionari delle navi che sorvegliano l’imbarco e, masticando tabacco,
esaminano credenziali, salvacondotti e permessi d’espatrio, sono attraccati
vascelli inglesi, olandesi e ugonotti, i cui capitani assumono volontari per
ogni genere di lavoro di bordo al fianco dei mozzi, e richiedono forza, volontà,
segretezza e fedeltà: pagano bene, ma se solo si è sospettati di essere una
spia si finisce in pasto ai pesci. Le formalità per i nuovi arruolati sono brevi
e, dopo aver ricevuto dal nostromo comandi e minacce di morte in caso di inadempienza,
si parte.
Seguite dai gabbiani, con la ciurma che intona il canto
d’avventura affaccendandosi ai compiti di navigazione, sono sempre numerose le
navi che si avviano solcando spedite le acque prossime, per veleggiare in mare
aperto e andare a compiere l’assalto di corsa o corsaro agli ignari
e inermi mercantili dei paesi di osservanza cristiana fedeli al Papa; si legge:
“Predavano il commercio cattolico sotto qualsiasi bandiera navigasse”[41],
ma poi cominciarono ad assalire anche i mercantili protestanti se il carico prometteva
un ricco bottino.
Sono questi gli anni in cui nasce il mito dei
corsari e fioriscono le leggende delle loro imprese caraibiche; sono questi
i giorni in cui i cantori elisabettiani hanno il compito di conferire
estetizzazione letteraria alle gesta dei bucanieri, che riempiono d’oro
e preziosi trafugati i forzieri di sua maestà.
Ben presto questa marineria, ufficialmente illegale ma
legalizzata in segreto, perderà la copertura ideologico-politica della rivolta
contro il potere religioso dei regni cristiani di osservanza cattolica romana,
rivelando il suo vero volto di grande impresa criminale virtualmente attiva in
proprio, ma di fatto costituita come braccio armato navale occulto dello stato,
che la finanziava e remunerava lautamente per colpire, predare e distruggere, violando
ogni trattato fra stati e i più elementari principi dell’etica della navigazione.
John Hawkins, capo inglese di questi bucanieri
ufficialmente condannati da Elisabetta ma segretamente incoraggiati, coglie l’occasione
di un problema creatosi tra colonie spagnole e madrepatria per diventare
imprenditore del peggiore dei traffici possibili nel consesso umano.
Ecco cosa era accaduto: i coloni spagnoli rendevano
schiavi i nativi americani, che morivano spesso per le fatiche troppo dure cui
erano sottoposti, sicché Las Casas, intervenendo quale
difensore degli Indiani d’America presso Carlo I di Spagna, aveva suggerito di
trasferire in loco degli Africani, più robusti e resistenti degli schiavi
caraibici. Il ragionamento, simile a quello del contadino che sceglie la razza
di buoi più adatta per l’aratro, fu approvato da Carlo I, ma non molto tempo
dopo il commercio umano fu proibito da Filippo II di Spagna, che si limitò a
prevedere in casi eccezionali la concessione di una licenza.
Hawkins aveva saputo che i governatori spagnoli in
America, incuranti del divieto, continuavano a chiedere schiavi africani, così nel
1562 andò in Africa, rapì e fece prigionieri trecento giovani, li trasse in
catene, li imbarcò e li condusse in America dove li barattò con un grande
carico di zucchero, spezie e materie prime per la preparazione di medicinali. Tornato
in Inghilterra, Hawkins esibì il frutto della sua impresa a Lord Pembroke e
convinse personalmente Elisabetta a concedergli uno dei vascelli migliori della
flotta britannica, da aggiungere al suo naviglio per una seconda e più grande spedizione
condotta per conto della corona.
John Hawkins questa volta condusse quattrocento prigionieri
africani alle colonie spagnole, dove impose l’acquisto sotto la minaccia delle
cannoniere. Ritornò in patria da eroe, festeggiato per la ricchezza che portava:
la sovrana ottenne un ricavo del 60% di quanto investito[42]
e i corsari, diventati “negrieri schiavisti”, cominciarono ad arricchirsi con
la tratta di esseri umani, considerati barbaramente come oggetti rubati e poi venduti
da ladri di stato.
Nel 1567 Elisabetta concesse in affitto a Hawkins la Jesus
von Lübeck, una caracca costruita a Lubecca all’inizio del XVI secolo e orgoglio
della flotta di Enrico VIII, che insieme con altre quattro grandi navi negriere,
ossia modificate all’interno[43]
per ospitare Africani da vendere come schiavi, e con imbarcazioni di piccolo cabotaggio,
prese rotta verso l’Africa.
I corsari al servizio di sua maestà fecero prigioniera
una vera moltitudine di Africani ignari e inermi, senza più contarli, ammassandoli
in condizioni disumane nelle stive, badando solo che giungessero vivi fino in America.
Ormai la richiesta delle colonie in deroga alla legge spagnola era enormemente
cresciuta, e i corsari inglesi riuscirono a vendere a 160 sterline l’uno tutti
i poveri malcapitati, realizzando un bottino valutato centomila sterline[44].
Ripreso il mare, le navi di John Hawkins, mandate fuori rotta da una tempesta,
furono attaccate da una flotta spagnola che, nei pressi di San Juan de Ulúa, le
sconfissero in un sanguinoso conflitto. Fra i superstiti, un giovane comandante
di una delle navi schiaviste, parente di Hawkins: Francis Drake.
Tutta questa tristissima storia ha origine nella legalizzazione
più o meno occulta di navigli fuorilegge, accettata in sede diplomatica quale
strategia concepita in Inghilterra per vincere la piaga millenaria della pirateria.
È rimasta nella tradizione del diritto britannico, della common law, la
regolamentazione legale dei reati che non si riesce ad eliminare, secondo la
concezione della politica come “arte del possibile”.
Naturalmente Elisabetta, fingendo di non riuscire nell’impresa
di redimere e sottomettere alle leggi del regno quelle milizie navali, di fatto
le impiegava col ruolo di “barbari al servizio dell’impero”. Così come nei secoli
i re si sono serviti di mercenari e briganti, e i servizi segreti di molti stati
post-moderni armano organizzazioni terroristiche per perseguire i propri scopi,
la monarchia inglese impiegava i corsari, coprendo legalmente le missioni
concordate.
L’emissione delle lettere di corsa[45]
costituiva una legittimazione militare temporanea e rinnovabile di mercenari
del mare per il compimento di “azioni di guerra di corsa” ai danni delle navi
dei paesi coloniali cattolici e fu abolita solo nel 1713 con il trattato di
Utrecht. Il conferimento di questa autorizzazione è un tipico strumento politico
elisabettiano perché si basa sulla fedeltà alla sovrana e sulla convenienza
dello stato. I corsari potevano avere nelle loro fila pirati e galeotti evasi
dalle patrie galere, avventurieri in cerca di fortuna e ogni sorta di delinquente
purché avesse abilità di navigatore e soldato; la loro coscienza sporca non
avrebbe contaminato l’immagine del paese e il prestigio della regina, che
continuava a intrattenere buoni rapporti con i sovrani degli stati ai quali i
suoi corsari saccheggiavano e incendiavano le navi.
Elisabetta poteva candidamente definire i corsari una
sciagura, parlando coi re di Spagna e Portogallo, e allo stesso tempo nominare
Sir Francis Drake capo dei Sea Dogs, il più temuto naviglio di predatori
dell’Atlantico, in segreto costituito e registrato quale unità speciale della
Royal Navy del Regno d’Inghilterra.
[continua]
L’autore della nota ringrazia la dottoressa Isabella
Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura degli scritti di argomento connesso
che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno
nella pagina “CERCA”).
Giuseppe Perrella
BM&L-30 ottobre 2021
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è registrata presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze, Ufficio Firenze 1, in data
16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484, come organizzazione scientifica
e culturale non-profit.
[1] Lord Acton et al., The Cambridge Modern History (I-V),
III, p. 289, Cambridge University Press, Cambridge 1910.
[2] James Anthony Froude, Reign of Elizabeth, I, p. 120, J. M.
Dent & Sons, London 1932.
[3] J. E. Neale, Queen Elizabeth, p. 61, Bedford, London 1934.
[4] Cfr. Will e Ariel Durant, L’Apoteosi
Inglese, libro I, in L’Avvento della Ragione, Vol. I,
op. cit., p. 16.
[5] Cfr. Will e Ariel Durant, op. cit., p. 16.
[6] Cristopher Hatton in Shakespeare’s England – An account of
Life & Memories of his Age, I, p. 80, Oxford at Clarendon Press, 1926.
[7] Cfr. William McDougall, The Group Mind, Cambridge
at The University Press, London 1927. È significativo il fatto che a Londra questo libro si
vendeva durante le cinque conferenze tenute in quella città da Freud, che insegnava
con la psicoanalisi l’estremo opposto, ossia la centralità della vita intrapsichica
con i suoi processi inconsci.
[8] Non è un caso che gli storici
etichettino come “elisabettiano” ogni protagonista della cultura del periodo,
come lo stile delle opere emblematiche di quella temperie inglese.
[9] Primo fra tutti William Cecil,
consigliere e segretario che servì la corona per oltre quarant’anni.
[10] J. E. Neale, Queen Elizabeth, op. cit., pp. 75-76.
[11] Shakespeare’s England, I, op. cit., p. 5,
[12] J. E. Neale, Queen Elizabeth, op. cit., p. 386. Un giudizio probabilmente influenzato
da ammirazione e devozione.
[13] Sostenne il metodo induttivo
derivato dall’esperienza in antitesi al metodo deduttivo cartesiano. Nelle
prassi scientifiche contemporanee entrambi i metodi sono ritenuti validi nelle
condizioni appropriate e non considerati in antitesi.
[14] Cfr. Thomas Hobbes, Leviatano
(2 voll.), II, pp. 542-576, Fabbri Editori, Milano 1996.
[15] Will e Ariel Durant, La
Grande Regina, p. 21, (L’Apoteosi Inglese, libro I), in L’Avvento
della Ragione, Vol. I, in Will Durant (a cura di), Storia della Civiltà,
Edito-Service Editore, Ginevra per Arnoldo Mondadori, Milano 1963.
Equivale a dire: qualunque fosse la quantità di sapere posseduto era quella giusta,
perché essendo lei la perfezione è su di lei che si misura il giudizio e non
viceversa.
[16] J. E. Neale, Queen Elizabeth, op. cit., p. 26.
[17] Chute, Shakespeare of London, p. 145.
[18] Will e Ariel Durant, La
Grande Regina, op. cit., p. 21.
[19] Will e Ariel Durant, La
Grande Regina, op. cit., p. 22.
[20] Oggi si tende a descrivere questo
spettacolo secondo il genere creato da Ben Johnson e lo si confonde con le
parate di maschere che fin dal Medioevo presentavano a corte allegorie
celebrative dei sovrani. Il nuovo spettacolo giunto dall’Italia in quegli anni
è descritto come l’ho riportato nei testi inglesi dell’epoca.
[21] John Lingard, The History of England, VI, p. 321, J. Mawman, London 1825.
[22] Will e Ariel Durant, op. cit., p. 23.
[23] Will e Ariel Durant, op. cit., p. 21.
[24]
Cfr. Will e Ariel Durant, op. cit., p. 21.
[25] Cfr. James Anthony Froude, Reign of Elizabeth, IV, op. cit., p.
62.
[26] James Cholmondeley Thornton, Table Talk from Ben Johnson to Leigh
Hunt, p. 9, J. M. Dent & Sons, London 1934.
[27] Non rende “inadatta all’uomo”,
può solo rendere difficile e un po’ doloroso il primo coito.
[28] Hallam, Constitutional History of England I, p. 133,
[29] J. E. Neale, Queen Elizabeth, p. 80, Bedford, London 1934.
[30] Read, Mr. Secretary Cecil and Queen Elizabeth, cit. in Will e Ariel Durant, op. cit., p. 18. Si ipotizza il consulto con un
altro medico che l’abbia rassicurata sulla possibilità di generare.
[31] Will e Ariel Durant, op. cit.,
p. 20.
[32] La Virginia, ribattezzata con Cromwell
“Commonwealth Virginia”, che comprendeva l’attuale Kentucky e la Virginia
Occidentale, fu la prima delle tredici colonie che poi si ribellarono al
dominio britannico e fondarono gli Stati Uniti d’America. Durante la guerra civile,
che portò alla condanna a morte di Carlo I, la Virginia era schierata con il
sovrano.
[33] Froude, Reign of Elizabeth, I, p. 103, cit. in Will e Ariel Durant, op. cit., p. 19.
[34] Froude, Reign of Elizabeth, I, p. 491, cit. in Will e Ariel Durant, op. cit., p. 20.
[35] Secondo alcuni per cicatrici da
vaiolo, secondo altri per semplice acne giovanile.
[36] Cfr. James Anthony Froude, Reign of Elizabeth, I, op. cit., p.
300.
[37]
Cfr. Will e Ariel Durant, op. cit., p. 21.
[38] Cfr. John Aubrey, Brief Lives, p. 305, Oxford 1693 (3 volumes
in folio) at Bodleian Library (MSS Aubrey 6-8); è incluso
anche nella raccolta di biografie 1669-1696 pubblicata dal rev. Andrew Clark (Clarendon Press, 1898). Ho
consultato anche i due volumi della
prima edizione integrale che include tutte le biografie di Aubrey: Bennett Kate (editor), brief
lives with An Apparatus for the Lives of our English Mathematical Writers,
Oxford University Press, Oxford 2015.
[39] Cfr. John Aubrey, Brief Lives, op. cit., idem.
[40] In questa materia, le vie del
liberalismo inglese precederanno di molto quelle del liberalismo francese, che però
avrà ben altra profondità culturale.
[41] Froude, Reign of Elizabeth, II, p. 466, cit. in Will e Ariel Durant, op. cit., p. 43.
[42] Frederick Louis Nussbaum, A History of the Economic Institutions
of Modern Europe: An Introduction to Der Moderne Kapitalismus of Werner Sombart, p. 122, F. S. Crofts
& Company, New York 1933.
[43] Da navi così trasformate sono stati
trasportati venti milioni di schiavi africani (Cfr. Kevin Shillington,
Abolition and the Africa Trade, in History Today
57 (3): 20-27, 2007).
[44] Cfr. Will e Ariel Durant, op. cit.,
p. 43.
[45] Dette anche patente di corsa
o lettere di marca.