Specchio della psiche e della civiltà

 

 

GIUSEPPE PERRELLA

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XVIII – 30 ottobre 2021.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: SAGGIO BREVE/DISCUSSIONE]

 

 

(Ventesima Parte)

 

40. Elisabetta I impronta un’epoca suscitando l’ammirazione dei singoli e conquistando la coscienza del popolo. Sovrana illegittima, abile manipolatrice, astuta opportunista, spietata giustiziera, Elisabetta I ha saputo eccellere nelle arti diplomatiche e nelle abilità di governo come pochi nella storia e, se non è assurta a modello assoluto di donna in grado di competere con gli uomini e superarli nel più alto ruolo di comando nella gerarchia di uno stato, è solo perché a quel tempo le donne di potere rilevanti per la storia sono state numerose.

Papa Sisto V dichiarò: “Se non fosse un’eretica varrebbe un mondo intero”[1], e il cattolico ambasciatore di Spagna, a proposito dell’astuto mimetismo che Elisabetta metteva al servizio della sua abilità di persuadere, attrarre, sedurre e affascinare, raccontava: “Questa donna è posseduta da centomila demoni, eppure finge con me che vorrebbe essere una monaca, vivere in una cella e recitare il rosario da mane a sera”[2]; e poi scriveva al suo sovrano Filippo: “È molto legata al suo popolo, e ha fiducia che esso sia tutto dalla sua parte, il che effettivamente è vero”[3].

In tante circostanze diverse, e per tante differenti ragioni, la corte e il popolo avevano seguito Elisabetta con assoluta devozione e condivisione di intenti. Anche se la sua popolarità viene attribuita da molti storici all’aver ridotto le tasse, favorito il commercio e assicurato la pace, è evidente che vi sia stato qualcosa di più di provvedimenti bene accetti in un rapporto che pareva di amore reciproco. Quando vi furono attentati alla sua vita, pregarono per lei pubblicamente impetrando la grazia della sua incolumità anche i puritani che lei aveva perseguitato. Fu promossa dal popolo la decisione di rendere festa nazionale e giorno di ringraziamento a Dio la ricorrenza della sua ascesa al trono[4].

L’intesa era il frutto di un lavoro intenso e costante: i rapporti con i sudditi erano parte integrante del piano di governo di Elisabetta I, che faceva di parate, viaggi di ispezione e giochi pubblici, altrettante occasioni di conoscenza diretta del maggior numero di persone possibile: un sorriso, un porgere la mano al bacio con inchino e chiedere un parere, un’opinione o un’impressione su quanto accadeva a un maniscalco, a un cappellaio, a un fabbro o a un conciatore avrebbe prodotto un effetto indelebile, perché ciascuno di costoro avrebbe raccontato per il resto della vita di aver conversato con la sovrana. Si legge che qualcuno, approfittando della possibilità, le faceva lunghe confidenze personali e lei ascoltava con attenzione, senza mai mostrarsi annoiata[5]. Christopher Hatton, in un’efficace sintesi, afferma che in questo e in cento altri modi “andò a pesca delle anime umane”[6]. Il suo scopo non era quello di un moderno politico che cerca il consenso elettorale, ma era far breccia nelle coscienze per influenzare la mentalità e l’atteggiamento dei sudditi, cercando di inculcare l’idea che la sola via giusta per la nazione sia quella in cui la regina e il popolo camminano insieme. E, per parte sua, Elisabetta faceva mostra di essere disposta a correggere la sua direzione di marcia per venire incontro ai desideri della gente.

Se non possiamo affermare con certezza che le isole britanniche siano state il luogo in cui si sia sviluppato più che in altre realtà europee lo spirito di emulazione e la tendenza a conformare le proprie idee e il proprio stile mentale a quelli del gruppo sociale e dell’aggregazione nazionale di appartenenza, possiamo senza tema di smentita riconoscere l’assoluta importanza attribuita dai filosofi inglesi all’identità collettiva e l’esistenza in quella realtà di un “costume mentale di gruppo”, considerato da molti rilevante almeno quanto i tratti caratteristici della personalità del singolo. Si afferma infatti in questo secolo in Inghilterra quella cultura che darà luogo due secoli dopo alle teorie psicologiche sulla mente collettiva[7].

Nel costituirsi di tale realtà, Elisabetta mi sembra che abbia avuto un ruolo da protagonista assoluta, non semplicemente incoraggiando l’emulazione del suo stile[8] e di quello dei suoi collaboratori più devoti, scelti con cura e fortuna[9], ma soprattutto promuovendo l’identificazione per appartenenza alla nazione, alla casta, alla Chiesa Anglicana, al ruolo e al gruppo sociale di riferimento, mediante la propaganda di un’immagine idealizzata dei membri di tali aggregazioni, così da sollecitare il desiderio di uniformarsi per sentirsi parte di un valore ideale, e accrescere la coesione nazionale.

L’ambasciatore di Spagna, forse deluso perché la sovrana si mostrava sempre disponibile all’ascolto ma non seguiva mai i consigli dei diplomatici stranieri, ebbe a dichiarare: “Impartisce ordini e fa di testa sua in maniera assolutistica come suo padre”[10]. Probabilmente non aveva tutti i torti il rappresentante iberico, perché anche il fedele segretario e consigliere William Cecil ebbe a lamentarsi di essere poco ascoltato; in proposito abbiamo una testimonianza scritta della risposta della regina al consigliere, quando lui provò a ingiungerle di non trattare più con la Francia: “Signor segretario, penso di non voler più sapere di questa faccenda; ascolterò le proposte del re di Francia. Non intendo lasciarmi più legare a voi e ai vostri fratelli in Cristo”[11].

In questo caso, però, era in questione una differenza di visione strategica, in quanto Cecil la sollecitava a sinergie ed alleanze unicamente con paesi protestanti già amici, mentre la sua lungimiranza, probabilmente favorita dalla sua formazione religiosa secondo la dottrina apostolica romana, la induceva a conservare rapporti di cooperazione con le grandi potenze cattoliche continentali, rifuggendo dal confinarsi in un blocco protestante minoritario e inferiore per risorse economiche, potere politico e potenza militare. E sappiamo che la sua strategia “ecumenica” si rivelò vincente, perché l’Inghilterra da paese povero qual era alla sua ascesa al trono divenne tra i più ricchi e potenti del mondo alla fine del suo regno. D’altra parte, Cecil non se ne ebbe a male per tutte le volte in cui era rimasto inascoltato e la considerò “la donna più saggia che sia mai esistita, poiché capiva gli interessi e le inclinazioni di tutti i prìncipi del suo tempo, ed era così perfetta nella conoscenza del suo dominio, che nessun consigliere avrebbe potuto dirle qualcosa che prima ella già non sapesse”[12].

Cecil era spesso affiancato dal guardasigilli Nicholas Bacon, padre di Francis o Francesco Bacone, il filosofo della rivoluzione scientifica[13], dal consigliere privato e tesoriere Francis Knollys, dagli ambasciatori Throckmorton e Randolph, e soprattutto da Sir Francis Walsingham segretario di stato e uomo di raffinata sensibilità che, non solo curò per conto della regina l’immagine artistica del regno e la crescita dei grandi talenti d’arte al punto da meritare da Edmund Spencer la denominazione di «Grande Mecenate del suo tempo», ma organizzò anche a protezione della sovrana una rete segreta di spionaggio estesa da Edimburgo a Costantinopoli, nelle cui maglie rimase presa la regina di Scozia. È interessante notare che quella concezione di rete di spionaggio fu conservata nella struttura dei servizi di sicurezza britannici nei secoli successivi, fino a quando Ian Fleming servì come ufficiale della Royal Navy e poi, da scrittore, creò il personaggio di James Bond, l’agente segreto 007.

L’approfondimento su Elisabetta I ha importanza non solo per riconoscere i segni e gli effetti del processo di anglicizzazione dell’Europa, ma anche per comprendere il peso che ha avuto il suo modello di governo monarchico sugli esiti della controversia epocale circa il potere temporale del Papa, in termini di coscienza cristiana, filosofia religiosa e opportunità politica.

Esistevano infatti, in quegli anni, due fronti contrapposti: il primo sosteneva che tutto il potere temporale, anche in materia religiosa, dovesse essere nelle mani dei sovrani cristiani, protestanti o cattolici che fossero; il secondo difendeva il potere temporale dei pontefici, adducendo a prova del suo valore provvidenziale l’istituzione della Congregazione della Santa Inquisizione Universale, che portò sotto il controllo del Papa l’Inquisizione gestita dai sovrani, ponendo fine a veri e propri massacri perpetrati attraverso migliaia di condanne, come quelle emesse da Torquemada per conto di Ferdinando e Isabella di Castiglia, di cui ho detto in precedenza.

Quando nella controversia interviene Thomas Hobbes, esaminando nel Leviatano specificamente e in dettaglio tutte le tesi a favore del potere temporale esposte dal Cardinale Roberto Bellarmino nei cinque libri del suo De Summo Pontefice, il riferimento implicito al buon governo è costituito dal modello elisabettiano, apparentemente capace allo stesso tempo di garantire la vita cristiana nel benessere e non permettere il verificarsi di casi come quello di Galileo Galilei.

Su questa base, Hobbes non è tentato dall’idea di accettare il potere temporale della Chiesa di Roma per mitigare le derive giustizialiste dei sovrani che si arrogassero il diritto di sbarazzarsi dei nemici attuali o potenziali dell’ordine costituito, condannandoli a morte per opinioni religiose, in quanto tale rischio in Inghilterra non si correva. Allora, nel Leviatano, il filosofo può prodursi in una magistrale esegesi evangelica che dimostra come Gesù Cristo abbia conferito a Pietro il ruolo di capo spirituale nel governo delle anime, secondo una genealogia di missioni originata dal Padre Celeste che manda il Figlio, il quale incarica Pietro e i suoi successori del compito di responsabile della salvezza delle anime e non di giudice dei peccatori sulla terra o del ruolo di sovrano a capo di eserciti a tutela di interessi materiali[14].

Proviamo ora a osservare più da vicino Elisabetta I, attraverso i materiali storici.

Le fonti biografiche sono in massima parte apologetiche, encomiastiche e celebrative, ma quelle che esulano da questo novero agiografico riportano episodi ed aspetti della personalità della sovrana così radicalmente in contrasto, che non è possibile siano vere entrambe le versioni. Così, anche nelle trattazioni storiche più autorevoli che ho consultato, si seguono pedissequamente le idealizzazioni laudatorie, alle quali sono accostati elementi incompatibili provenienti dalle voci discordi, riproducendo in tal modo, senza risolverle, le contraddizioni delle fonti.

Se, quando la sovrana era viva e la sua corte operava come un involontario ma efficiente apparato di propaganda, non doveva essere facile stimare la fondatezza delle storie sulle virtù e i meriti fatte circolare dalle dame di palazzo, l’impresa di distinguere il vero dal falso, l’autentico dal contraffatto, il pettegolezzo dalla calunnia, ora che sono passati più di quattro secoli, può considerarsi del tutto impossibile.

Con questa consapevolezza, ho scelto di tralasciare molti contenuti privi di fonte di cui sono ricche le biografie romanzate e dare credito alle affermazioni concordi, mai smentite dalle principali fonti storiche e basate su lettere, carteggi ed altri documenti risalenti agli anni della vita di Elisabetta I, sperando che l’attendibilità degli studiosi prescelti sia all’altezza della loro fama, e proponendo, col nome dell’autore – così che il lettore ne possa dedurre da sé il grado di attendibilità – alcuni giudizi necessari a farsi un’idea della personalità e di qualche tratto dello stile caratteriale e comportamentale.

Comincio subito con un eloquente esempio di come nella descrizione della dimensione mentale della monarca le fonti agiografiche abbiano influenzato stile e contenuto anche di storici del calibro di Will e Ariel Durant, che offrono questa perla: “Di che genere era la mente sua? Possedeva tutto il sapere che una regina potesse sopportare con grazia”[15].

Ma in fondo si può comprendere, anche se non lo si condivide, l’atteggiamento di chi è tentato per simpatia di conferire un alone di perfezione biografica alla protagonista di una vicenda umana a dir poco fiabesca. La storia narra infatti di una serafica principessa di buoni sentimenti esclusa dalla successione, durante il regno della perfida sorellastra “Maria la sanguinaria” (Bloody Mary), perché illegittima, ma che alla morte della sorellastra si vede recapitare i gioielli della corona: fatto interpretato dai saggi di corte come simbolica designazione di erede al trono da parte della defunta. E, come nella trama di una favola, la fanciulla serafica e soave a venticinque anni viene incoronata regina col tripudio del popolo e diventa, con Mary Tudor, Maria Stuarda e Caterina de’ Medici, una delle quattro donne più potenti del mondo.

Da ragazza era stata un’allieva attenta, studiosa e brillante, secondo il suo celebre precettore Roger Ascham, che scrive: “Parla il francese e l’italiano altrettanto bene dell’inglese, e spesso mi parlava facilmente e bene in latino, e passabilmente in greco”[16]. Elisabetta continuò a studiare le lingue e tenne un carteggio in francese con Maria Stuarda, comunicava in italiano con un ambasciatore veneto e fu sentita rimproverare vigorosamente in latino un inviato proveniente dalla Polonia. Quando un ambasciatore le fece i complimenti per come fosse fluente nel parlare lingue diverse, apprezzando l’insegnamento di Ascham, lei rispose che “non era una meraviglia insegnare a una donna a parlare; molto più difficile sarebbe stato insegnarle a tenere a freno la lingua”[17].

Non sapremo mai se e con quanta autoironia scelse per suo motto Video et Taceo.

L’aspetto rilevante era che, a differenza di molti re e principi del suo tempo, non ricorse mai a interpreti e intermediari, trattando sempre direttamente e personalmente le questioni politiche e religiose, in tal modo potendo sempre ricorrere alle sue abilità nel conoscere e influenzare la psicologia dell’interlocutore. Conosceva davvero bene la struttura grammaticale delle lingue, infatti: “Tradusse Sallustio e Boezio e sapeva abbastanza di greco da leggere Sofocle e tradurre una tragedia di Euripide”[18]. Compose liriche e musiche ed era stata una diligente allieva di tecniche strumentali, riuscendo a suonare il liuto e il virginale discretamente, anche se era consapevole di non avere un talento da musicista e, con simpatica capacità autocritica, rideva e faceva ridere gli altri parlando delle sue doti. A questo proposito non posso tacere, perché menzionato in tutte le biografie che ho consultato, la frequente tendenza della regina Elisabetta a scoppi di risa e risate di gusto.

Si esercitava anche nella scrittura, e i suoi testi non erano mai banali, denotando acume e originalità; tuttavia, la sua prosa non era mai fluida e il suo periodare risultava spesso farraginoso e contorto, richiedendo per essere letto la stessa fatica fatta da lei per scriverlo. Vergava di suo pugno le lettere e redigeva personalmente i discorsi ma, anche se qualche storico li considera “attraenti per eloquenza e carattere”, il giudizio pressoché unanime è che fossero “complicati e affettati”[19].

Amava la letteratura e il teatro in tutte le sue forme, dalla declamatoria alla rapsodica, dalla commedia alla tragedia, e selezionava personalmente coloro che si sarebbero esibiti a corte, accettando coloro che mostravano di avere più talento di lei. Non è un caso che i vertici raggiunti dalla letteratura inglese in quel periodo non siano stati più eguagliati, e che il teatro di Shakespeare sia fiorito presso la sua corte, grazie alla protezione sua e di Leicester dai numerosi attacchi sferrati dai puritani.

Ma lo spettacolo preferito da Elisabetta I era una complessa forma di rappresentazione in parte interattiva, che teneva insieme con un filo narrativo, filosofico e burlesco le abilità di specialisti di tutte le arti di rappresentazione, dalla drammatica alla tersicorea, dall’acrobatica al mimo, che fondeva forme allegoriche dinamiche con figure e parole dirette allo spettatore, in un caleidoscopico intreccio di teatro-danza dai fantasmagorici costumi e giochi di abilità e prestigio, con travestimenti continuamente cangianti e macchine per creare effetti tali da stupire e impressionare chiunque. Si trattava dell’ultima geniale invenzione importata dall’Italia: una forma di arte multidisciplinare espressa come spettacolo e ludo partecipativo, che univa le abilità forgiate ed esercitate quotidianamente con lungo tirocinio alla capacità di improvvisazione espressa con estemporanee variazioni sul tema, adattate al pubblico e alle circostanze. Poiché tutti gli artisti erano in costume e mascherati, in Inghilterra si diede il nome di “Masques” a questa nuova forma di spettacolo[20].

Non possiamo escludere che il fascino esercitato dall’esperienza dei masque sulla regina abbia contribuito a convincerla del potere esercitato da abiti meravigliosi e gioielli stupefacenti sulla mente delle persone incontrate nella vita sociale. Il lavoro quotidiano necessario a compiere il suo look era paragonabile all’esercizio di una vera e propria arte minore: dall’acconciatura alle modifiche degli abiti, con sete e broccati orientali modellati in stile italiano, dovevano essere studiate per l’abbinamento con gioielli sempre nuovi, che portava nei capelli, alle orecchie, al collo, sul petto, alle braccia, ai polsi, alle dita, sugli abiti e sulle calzature.

Si faceva regalare gioielli dai postulanti, da coloro che aspiravano a diventare Lord o ad assumere altre cariche, così come dagli invitati alle feste che dava in occasione dell’Ascensione, del Natale, del Capodanno, dell’Epifania, della Candelora e negli ultimi giorni di Carnevale. Quando doveva punire dei ricchi ribelli per primo provvedimento sequestrava i gioielli delle signore, ma aveva riempito i suoi scrigni anche con i gioielli della Corona di Scozia, di Borgogna e Portogallo. A un alto prelato che aveva deplorato la sua passione per gli ornamenti intimò di non toccare più quel tasto, a meno che non avesse deciso di andare in cielo prematuramente[21].

Alla sua morte lasciò oltre duemila abiti, tutti degni delle grandi occasioni. Diceva di amare il fruscìo dello sfarzo. Durante la bella stagione andava in visita con tutta la corte in lettiga aperta o a cavallo, facendo una parata che diventava un avvenimento. Le città visitate vestivano i loro maggiorenti di seta e velluto per darle il benvenuto con discorsi e doni, “i nobili andavano in rovina per riceverla. I Lord indebitati pregavano che non passasse da loro”[22].

Parca e morigerata nel mangiare e nel bere si teneva in forma con lunghe cavalcate e dedicandosi alla caccia con molto impegno e perizia, ma soprattutto amò la danza, che praticava in gioiosa allegria quasi quotidianamente e, come si legge, “prillò sino a sessantanove anni”[23].

Eppure, la sua intensissima esistenza non fu mai frivola, e nei suoi cinque palazzi reali trovava sempre il tempo di appartarsi in biblioteca a studiare. Sosteneva di aver letto tutti i libri più importanti per i prìncipi della cristianità. Da ragazza studiava ogni giorno teologia, da regina lo studio quotidiano fu quello della storia.

Alcuni biografi dipingono l’alto sentire e la raffinatezza di spirito come doti naturali della regina, ulteriormente sviluppate da un’educazione classica volta alla ricerca della saggezza e della bellezza della bontà, in una sorta di kalokagathia interiore; altri, invece, dicono che imprecava come un pirata e sputava intorno a sé senza ritegno[24].

Per affrontare una questione ampiamente documentata, discussa e dibattuta, soffermiamo l’attenzione su una condizione del corpo implicita in ogni giovane donna rispettabile, debitamente ed educatamente taciuta per verecondia anche nelle conversazioni private, e che invece Elisabetta aveva dichiarato ed ostentato in ogni comunicazione istituzionale, facendone un potente strumento di politica estera: lo stato verginale.

Proprio a causa del peso politico che seppe conferire al suo essere “vergine regina”, numerosi storici hanno condotto sistematiche ed accurate ricerche negli archivi e tra la miriade di carte elisabettiane custodite in biblioteche e palazzi per comprendere più a fondo i termini della questione. Froude scrive che la verginità regale era ritenuta così importante che due diplomatici spagnoli, intendendo diffamare la giovane sovrana, presero a cercare prove che mentisse al riguardo e, non trovandone, giunsero a conclusioni che le facevano onore[25].

Thornton è tra gli storici che sono riusciti a reperire gli scritti più significativi, perché ha trovato il carteggio in cui Ben Johnson riferisce a Drummond di Hawthornden i segreti rivelati alla corte dal medico della regina: “Aveva una membrana che la rendeva inadatta all’uomo … le fu proposto da un chirurgo francese un’incisione, ma la paura la trattenne”[26]. La membrana di cui parla Ben Johnson non era altro che l’imene, che hanno tutte le donne, semplicemente si trattava di un caso di imene imperforato, che oggi sappiamo essere relativamente frequente[27]. Il medico, per imperizia al riguardo, ritenne che quella condizione fosse di ostacolo al parto e sconsigliò il matrimonio. Qualcosa era trapelata e Camden nei suoi Annales del 1615 racconta: “Il popolo maledisse il medico della regina, Huic, per averla dissuasa dal maritarsi per via di qualche suo impedimento o difetto”[28].

Nel 1559 Elisabetta aveva pubblicamente espresso il proposito di rimanere vergine[29], ma sette anni dopo promise al Parlamento: “Mi mariterò non appena possa farlo convenientemente … e spero di avere bambini”[30].

La castità, che ogni buon cristiano conserva fino al matrimonio perché concepisce la sessualità quale dono esclusivo di sé per la partecipazione procreativa al progetto divino sull’uomo, era sbandierata dalla sovrana come valore della persona, prova diretta della sua temperanza, prova indiretta del possesso delle altre virtù cardinali, espressione del suo essere una strong mind e garanzia di fedeltà e perseveranza, che le conferivano anche l’alone potenziale di perfetta moglie ideale.

In breve, la corte divenne affollata da una pletora di postulanti stranieri, portatori di doni per conto di principi e regnanti di ogni paese che aspiravano alla mano della virginea regina.

Walter Raleigh diceva che aveva l’incedere di Venere, cacciava come Diana, cavalcava come Alessandro, cantava come un angelo e sonava come Orfeo[31]. Raleigh, capitano di eserciti, marinaio, avventuriero, studioso secondo l’ideale italiano del poliedrico uomo rinascimentale e fedelissimo servitore innamorato della sovrana dedicò la prima colonia inglese d’America a Elisabetta, chiamandola in suo onore “Virginia”[32].

Si vuole che l’assedio dei pretendenti alla mano regale, e dunque al trono d’Inghilterra, sia durato per un quarto di secolo; leggiamo cosa scrive un ambasciatore dell’epoca: “Siamo qui in dodici ambasciatori tutti in gara per la mano di sua maestà; e sta per arrivare il duca di Holstein, come postulante per il re di Danimarca. Il duca di Finlandia, che è qui per conto del fratello del re di Svezia, minaccia di ammazzare l’uomo dell’Imperatore, e la regina teme che si taglino la gola a vicenda sotto i suoi occhi”[33]. Elisabetta astutamente, per non averlo come nemico, lasciava sperare Filippo II di Spagna, che mirava a sottomettere l’Inghilterra alla Spagna per recuperare l’egemonia perduta; la sovrana prese ancora più tempo con Carlo IX di Francia, tanto che dopo oltre due mesi e mezzo non aveva fornito una risposta e l’ambasciatore francese ebbe a dire: “Il mondo è stato fatto in sei giorni, e lei ha già trascorso ottanta giorni, senza ancora decidere”. Al che, la sovrana replicò che il mondo era stato opera di un artista più grande di lei[34].

Ma, al di là delle battute riportate dai contemporanei, il delicato rapporto con la Francia merita una precisazione relativa a una questione spesso trascurata nelle biografie della sovrana, ma del massimo peso politico. Circa un secolo prima di questi eventi si era conclusa con la vittoria dei Francesi la Guerra dei cent’anni tra Inghilterra e Francia, in cui si impiegarono per la prima volta armi da fuoco in campo aperto con massacri ad ogni battaglia ed eventi che avevano profondamente segnato i rapporti tra i due regni, le cui conseguenze problematiche erano ancora presenti quando Elisabetta ascende al trono; basti pensare, in proposito, al caso della cittadina francese di Calais rimasta inglese fino al 1559. All’origine dei 117 anni di guerra vi era stata la rivendicazione della corona di Francia da parte di Edoardo III d’Inghilterra, quale nipote di Filippo IV.

Ebbene, quando Elisabetta I viene incoronata, nella solenne cerimonia è proclamata Regina di Inghilterra, Irlanda e Francia, all’insaputa dei Francesi.

La mente strategica della figlia di Enrico VIII e Anna Bolena mutò il rischio di assoggettare il regno ad altre potenze diventando regina consorte di un monarca straniero, nel vantaggio di realizzare alleanze de facto con gli stati, attraverso un gioco di seduzione con i loro sovrani, ridotti all’attesa dipendente dalla volontà dell’amata.

Per restare alla Francia, Elisabetta pose gli occhi sul figlio di Caterina de’ Medici ed Enrico II, ossia l’appena sedicenne Francesco di Valois Duca di Alençon, perché ritenne che, a motivo della sua giovane età, si sarebbe lasciato facilmente influenzare e manipolare, accettando di assoggettare a lei il suo paese. Grazie a un artificio comunicativo posto in essere dai suoi diplomatici, riuscì a fare apparire alle corti europee e ai suoi pretendenti che era stato il giovane, a motivo di un innamoramento ideale, plausibile perché non raro tra gli adolescenti, a chiedere di conoscerla.

Quando si accorse che il ragazzo aveva già precisi e fermi intendimenti spirituali e politici, e appariva tutt’altro che manipolabile, lo rimandò indietro dicendo che non le piaceva perché aveva il naso butterato[35] e, inoltre, era cattolico e troppo giovane per lei trentasettenne.

Cinque anni dopo, quando la politica estera francese sembrava sfuggirle di mano, decise che il naso del ventunenne Francesco, divenuto nel frattempo anche duca d’Angiò, non aveva più nulla di sgradevole e così invitò a Londra il Principe di Francia, ultimo dei figli di Caterina de’ Medici e fratello di Carlo IX da lei illuso in precedenza. Elisabetta si dichiarò sensibile al fascino del giovane e cominciò così un flirt, con lui e con la Francia, durato altri cinque anni.

La regina ebbe un grande amore che tenne segreto fino al 1562, quando credette di essere in punto di morte: confessò di aver sempre amato Lord Robert Dudley e, dopo aver disposto che fosse nominato protettore del regno, chiamò Dio a testimone che fra loro non c’era mai stato nulla di sconveniente[36].

Il giuramento voleva porre un sigillo su una vicenda dolorosa che aveva indotto illazioni calunniose: Dudley era sposato con Amy Robsart, ma non dimoravano insieme perché lui viveva a Windsor, dove era con la regina mentre la moglie, cadendo per le scale a Cumnor Hall, morì. I diplomatici stranieri fecero circolare la voce che si era trattato di una specie di irrevocabile annullamento di un matrimonio che ostacolava i piani della regina; anche se fu subito provato che si trattava di un sospetto ingiusto, Elisabetta decise di tener lontano Dudley per non alimentare ulteriori dicerie.

Come è evidente, la continuità tra personale e politico è assoluta nella vita della sovrana, ed è la conseguenza della sua decisione di eliminare quella barriera tra pubblico e privato, tra ruolo sociale e soggettività affettiva che, già presente e paradigmatica quasi ad ogni livello della società, aveva rappresentato lo storico presupposto necessario all’impiego del potere di suggestione e di evocazione esercitato dall’articolata dimensione simbolica della regalità.

Il potere dei re era giocato sulla distanza, intesa come vuoto incolmabile se non in modo effimero da costruzioni immaginarie, e in grado di suggerire una differenza essenziale tra colui che ha potere di condannare a morte e tutti gli altri. Il silenzio abituale sulla vita privata – di cui si comunicavano solo gli effetti in grado di migliorare l’immagine pubblica – e, soprattutto, l’inavvicinabilità rituale dai tempi del Sacro Romano Impero, alimentavano nel popolo un senso di soggezione per alterità, fino ad evocare l’inconsapevole tendenza al rispetto sacro, facilitando il riconoscimento di autorità e l’obbedienza per sottomissione.

Elisabetta aveva deciso, dal giorno stesso dell’incoronazione, di rinunciare all’uso tradizionale della distanza, con tutto il potere di suggestione evocato da quell’estraneità del sovrano che ne rappresenta anche l’alterità dalla vita affettiva – che invece conferisce senso alla persona comune – preferendo la conoscenza interpersonale, in quanto confidava enormemente nelle proprie risorse nel vis-à-vis e stimava molto più produttivo e conveniente un rapporto umano nel registro del reale che un rapporto di ruolo nel registro del simbolico.

Naturalmente non si trattò di una scelta assoluta e costante, e proprio il gioco di entrata e uscita dal ruolo di persona che dispone di poteri straordinari, costituiva una leva strategica da lei sempre impiegata, tanto nelle tattiche seduttive della relazione personale quanto nella tecnica del rapporto diplomatico. Quando la circostanza lo richiedeva, sapeva mostrarsi austera e solenne, al punto da incutere rispettoso timore anche in alcuni dei collaboratori più stretti. E, nonostante avesse fama di buona ascoltatrice, in alcune drastiche decisioni non volle sentire ragioni, come quando si mostrò irremovibile e sorda a ogni supplica lasciando languire e morire nella Torre di Londra Lady Catherine Grey[37].

Un aspetto del carattere di Elisabetta è reso bene da un aneddoto narrato da Aubrey, ma di pubblico dominio fin dall’accadere del fatto: il Conte di Oxford Edward de Vere era onorato di poter porgere il suo omaggio di nobile della città più colta del regno all’amata regina e, nella solenne occasione in cui questo ambìto privilegio gli veniva concesso, si appressò con trepido entusiasmo al cospetto della maestà reale, ma nell’atto di inchinarsi, per l’intensa emozione, non riuscì a trattenere un sonoro peto. La profonda vergogna e l’intenso disagio che assalirono Edward de Vere lo indussero, dopo aver abbandonato il consesso, a lasciare l’Inghilterra e a rimanere in viaggio per sette anni. Il tempo trascorso era stato così lungo da aver visto tanti cambiamenti a corte e nel paese. Quando finalmente tornò in patria, la regina lo convocò in udienza di corte per dargli il bentornato alla presenza dei suoi pari e, appena lo vide giungere, lo accolse con grande cordialità, esclamando: “Mio Lord, ho dimenticato il peto!”[38].

Prima di conoscere bene Lord Robert Dudley e innamorarsene, per i servigi che questi aveva reso alla corona, decise di donargli una contea. Alla solenne cerimonia nella sala del trono, alla presenza degli stati maggiori, della corte, di rappresentanti del parlamento e di dignitari, nobili e diplomatici stranieri, al momento dell’investitura Dudley si inginocchiò e chinò il capo davanti alla regina, quasi in un atto di contrizione per un rito celebrato con tutti i crismi della sacralità, e lei, Elisabetta, con incedere solenne, si chinò e, tra lo stupore di tutti, gli fece il solletico sulla nuca[39].

Non una generica trasgressione del protocollo, ma come uno sberleffo, ovvero l’improvvisa irruzione del ridicolo nella solennità rituale tendente al sublime, che la regina aveva fatto nella piena consapevolezza della molteplicità di significati che poneva in questione, primo fra tutti: posso fare anche questo. Donare una contea non vuol dire solo cambiare la vita di una persona e della sua famiglia, ma mutare le sorti di generazioni di discendenti; un evento che entra nella storia e conferisce nuova identità, ma chi ha il potere di porlo in essere segnala ai membri dell’autorevole consesso, idealmente rappresentanti tutto il popolo, che lo considera per sé stessa un piccolo fatto ordinario che non trasforma un suddito in un rispettabile conte e non gli risparmia la burla del solletico.

È interessante notare come Elisabetta impiegherà lo statuto di eccezione proprio della regina, in quanto soggettività unica e differente da ogni altro, in funzione della costituzione di sé stessa come autorità super partes, che pone sullo stesso piano tutte le fazioni religiose, filosofiche o politiche purché sottomesse a lei e alle leggi da lei approvate. Il modo acuto, e quasi geniale in senso politico, col quale interpreta questo ruolo per dirimere le controversie apparentemente insanabili innescate nel paese dalla Riforma protestante, le consentiranno, come vedremo più avanti, di governare con successo la transizione verso una nuova confessione religiosa di stato, sedando tutti i conflitti tra l’agguerrita militanza protestante e la granitica maggioranza cattolica del paese.

Elisabetta dichiarava di credere fermamente nella libertà di coscienza ma di ritenere con altrettanta fermezza necessario un governo superiore all’amministrazione parlamentare, concentrato nelle sue mani e condotto col freddo calcolo delle ragioni di stato appreso dalla lettura di Machiavelli. Per la prima volta introduce nella filosofia di governo la dichiarata scissione tra coscienza individuale, quale intoccabile dimensione privata, e coscienza del cittadino quale espressione pubblica della volontà di sottomissione alla regina e alle leggi, imponendo così la regola dell’ipocrisia dei dissenzienti.

Dalla strategica soluzione elisabettiana di porre sullo stesso piano tutte le parti sociali, dalle lobbies nate in seno all’aristocrazia mercantile ai rappresentanti di banche, comitati d’affari, imprese religiose e fazioni politiche, origina la moderna prassi dello stato laico al di sopra delle parti[40], che ha sostituito l’etica pubblica fondata sulla morale cristiana con il politically correct.

La riflessione psico-antropologica sulla sostanza dello stile della regina ci rivela un nucleo di sensibilità arcaica, che vuole il valore della soggettività del capo superiore a ogni legge, in quanto le norme in quel modo di intendere primitivo esistono per il controllo sociale e non hanno un senso astratto, assoluto e superiore, secondo la concezione di astrattezza e generalità della norma che sarà di Hegel, perché sono al servizio dell’esercizio del potere da parte di un singolo, come accadeva nell’organizzazione tribale e ancora al tempo dei chiefdoms.

La legge morale è per definizione superiore alle contingenze, alle convenienze e agli interessi del singolo, e la cultura cristiana dell’Europa, che origina dalla Legge ebraica di sottomissione a Dio uguale per tutti gli uomini e formulata già tredici secoli prima della venuta di Cristo, è in assoluta antitesi con la pretesa di un capo che si ritenga superiore ad ogni prescrizione e non soggetto alle leggi, e pretenda di essere idolatrato in ragione del potere che esercita.

Una simile tendenza psichica di fondo, probabilmente in gran parte inconsapevole, non poteva trovare migliore espressione della scelta di Elisabetta I di autonominarsi capo de facto della Chiesa Anglicana, così da liberarsi dell’autorità morale del Papa, eliminando ogni superiore gerarchico dalla faccia della terra o, meglio, dalla sua rappresentazione cosciente del mondo.

E questo è il punto nodale: la regina ha l’abilità di entrare nella dimensione immaginaria del popolo, con le forme e le storie che veicolano la sua rappresentazione della realtà, al punto da ottenere che la sua versione diventi fatto e pensiero condiviso del mondo reale.

Tutto ciò che appartiene alla corte elisabettiana è fatto ad arte, e ogni sala dei cinque palazzi, ogni padiglione, ogni parco è set di una rappresentazione al centro della quale, presente o assente che sia, è sempre da porsi il personaggio della regina, concepito nei minimi particolari per apparire come un dream come true, un sogno divenuto realtà, che regge il senso di tutta la struttura spazio-temporale di rapporti: Elisabetta non si è limitata all’elaborazione di una proiezione sociale idealizzata, estetizzata e sublimata di sé stessa, che già da sola è spettacolo in grado di rendere pubblico muto, immoto e affascinato ogni presente, ma ha assunto il ruolo di regista di tutta l’azione sul palcoscenico della storia.

Credo, tuttavia, che sarebbe un errore considerare la vita di corte come una grande commedia o uno spettacolo di masque, solo perché il gioco dei ruoli cangianti, come di quelli fissi, richiede spesso la mediazione di una maschera che semplifica con cruda immediatezza la parte di senso offerta alla relazione, celando senza annullare la complessità identitaria di ciascuno; sarebbe un errore, credo, perché si tratta dell’opposto del teatro: qui è la realtà che gioca col linguaggio dello spettacolo; è la vita vera che compie il proprio tempo e pone in gioco le proprie istanze attraverso le forme materiali convenute di un immaginario realizzato.

 

41. All’alba al porto della Rochelle sulle tracce di una storia diventata leggenda. Anche i protagonisti che conferiscono alla storia i tratti della propria fisionomia politica sono espressione del tempo in cui vivono, e pertanto, per sciogliere il nodo della reciprocità, è opportuno e forse necessario conoscere gli aspetti più rilevanti del mondo circostante nel segmento diacronico corrispondente ai giorni della loro vita.

L’insegnamento accademico della storia di questo periodo offre uno spunto interessante quando richiama l’attenzione su un cambiamento epocale senza precedenti: fino al 1500 affermare il valore della marineria di una nazione, come era stato per le nostre repubbliche marinare, voleva dire ottenere il riconoscimento di un ruolo politico e militare nel Mediterraneo; dal 1500, o virtualmente dal 1492, cambia tutto con il costituirsi del ruolo di potenza atlantica, ossia uno stato con un naviglio che, dopo aver affrontato viaggi e battaglie sull’Oceano Atlantico, abbia affermato il proprio diritto sulle terre d’America. Cambiamento di dimensioni incomparabili nella storia, in termini geopolitici, economici e militari; ma ciò che maggiormente mi interessa è il mutamento dell’etica di parte dei popoli, e soprattutto dei loro governanti, associato a questi eventi.

Immergiamoci in quel tempo e andiamo con la mente, alle prime luci dell’alba, sulla banchina del porto calvinista francese anticattolico della Rochelle dove sotto la copertura di una militanza ideologica si armavano navi da guerra camuffate da grandi natanti civili, detti drakkar, col nome suggestivo delle imbarcazioni dei Vichinghi, ma in realtà velieri di ultima generazione, insuperabili per velocità. Le nebbie della notte cominciano a diradarsi, mentre si sentono i primi richiami degli uccelli acquatici e si intravvedono i primi voli.

Sono accese le lanterne delle officine di porto e delle locande dei marinai, dove si affaccendano, in un via vai di uomini coperti da mantelli e cappelli a falde larghe con lunghe spade al fianco, tanti passeggeri che, prima dell’imbarco, bevono boccali di vino cotto o latte caldo con acquavite, all’uso del luogo, dove non è ancora giunto il costume fiorentino della cioccolata calda e del caffè. Ma tutti prestano attenzione a figure altere, ciascuna circondata da vari uomini, che incedono facendo risuonare il loro passo sul basolato, consapevoli di avere la responsabilità della vita di tanti marinai e di una rischiosa missione segreta: sono i capitani dei velieri che hanno appena mostrato alle autorità portuali le lettere di corsa, ovvero l’autorizzazione di stato a compiere quel particolare genere di azioni navali.

Al molo, dove presso botti che fungono da tavoli siedono funzionari delle navi che sorvegliano l’imbarco e, masticando tabacco, esaminano credenziali, salvacondotti e permessi d’espatrio, sono attraccati vascelli inglesi, olandesi e ugonotti, i cui capitani assumono volontari per ogni genere di lavoro di bordo al fianco dei mozzi, e richiedono forza, volontà, segretezza e fedeltà: pagano bene, ma se solo si è sospettati di essere una spia si finisce in pasto ai pesci. Le formalità per i nuovi arruolati sono brevi e, dopo aver ricevuto dal nostromo comandi e minacce di morte in caso di inadempienza, si parte.

Seguite dai gabbiani, con la ciurma che intona il canto d’avventura affaccendandosi ai compiti di navigazione, sono sempre numerose le navi che si avviano solcando spedite le acque prossime, per veleggiare in mare aperto e andare a compiere l’assalto di corsa o corsaro agli ignari e inermi mercantili dei paesi di osservanza cristiana fedeli al Papa; si legge: “Predavano il commercio cattolico sotto qualsiasi bandiera navigasse”[41], ma poi cominciarono ad assalire anche i mercantili protestanti se il carico prometteva un ricco bottino.

Sono questi gli anni in cui nasce il mito dei corsari e fioriscono le leggende delle loro imprese caraibiche; sono questi i giorni in cui i cantori elisabettiani hanno il compito di conferire estetizzazione letteraria alle gesta dei bucanieri, che riempiono d’oro e preziosi trafugati i forzieri di sua maestà.

Ben presto questa marineria, ufficialmente illegale ma legalizzata in segreto, perderà la copertura ideologico-politica della rivolta contro il potere religioso dei regni cristiani di osservanza cattolica romana, rivelando il suo vero volto di grande impresa criminale virtualmente attiva in proprio, ma di fatto costituita come braccio armato navale occulto dello stato, che la finanziava e remunerava lautamente per colpire, predare e distruggere, violando ogni trattato fra stati e i più elementari principi dell’etica della navigazione.

John Hawkins, capo inglese di questi bucanieri ufficialmente condannati da Elisabetta ma segretamente incoraggiati, coglie l’occasione di un problema creatosi tra colonie spagnole e madrepatria per diventare imprenditore del peggiore dei traffici possibili nel consesso umano.

Ecco cosa era accaduto: i coloni spagnoli rendevano schiavi i nativi americani, che morivano spesso per le fatiche troppo dure cui erano sottoposti, sicché Las Casas, intervenendo quale difensore degli Indiani d’America presso Carlo I di Spagna, aveva suggerito di trasferire in loco degli Africani, più robusti e resistenti degli schiavi caraibici. Il ragionamento, simile a quello del contadino che sceglie la razza di buoi più adatta per l’aratro, fu approvato da Carlo I, ma non molto tempo dopo il commercio umano fu proibito da Filippo II di Spagna, che si limitò a prevedere in casi eccezionali la concessione di una licenza.

Hawkins aveva saputo che i governatori spagnoli in America, incuranti del divieto, continuavano a chiedere schiavi africani, così nel 1562 andò in Africa, rapì e fece prigionieri trecento giovani, li trasse in catene, li imbarcò e li condusse in America dove li barattò con un grande carico di zucchero, spezie e materie prime per la preparazione di medicinali. Tornato in Inghilterra, Hawkins esibì il frutto della sua impresa a Lord Pembroke e convinse personalmente Elisabetta a concedergli uno dei vascelli migliori della flotta britannica, da aggiungere al suo naviglio per una seconda e più grande spedizione condotta per conto della corona.

John Hawkins questa volta condusse quattrocento prigionieri africani alle colonie spagnole, dove impose l’acquisto sotto la minaccia delle cannoniere. Ritornò in patria da eroe, festeggiato per la ricchezza che portava: la sovrana ottenne un ricavo del 60% di quanto investito[42] e i corsari, diventati “negrieri schiavisti”, cominciarono ad arricchirsi con la tratta di esseri umani, considerati barbaramente come oggetti rubati e poi venduti da ladri di stato.

Nel 1567 Elisabetta concesse in affitto a Hawkins la Jesus von Lübeck, una caracca costruita a Lubecca all’inizio del XVI secolo e orgoglio della flotta di Enrico VIII, che insieme con altre quattro grandi navi negriere, ossia modificate all’interno[43] per ospitare Africani da vendere come schiavi, e con imbarcazioni di piccolo cabotaggio, prese rotta verso l’Africa.

I corsari al servizio di sua maestà fecero prigioniera una vera moltitudine di Africani ignari e inermi, senza più contarli, ammassandoli in condizioni disumane nelle stive, badando solo che giungessero vivi fino in America. Ormai la richiesta delle colonie in deroga alla legge spagnola era enormemente cresciuta, e i corsari inglesi riuscirono a vendere a 160 sterline l’uno tutti i poveri malcapitati, realizzando un bottino valutato centomila sterline[44]. Ripreso il mare, le navi di John Hawkins, mandate fuori rotta da una tempesta, furono attaccate da una flotta spagnola che, nei pressi di San Juan de Ulúa, le sconfissero in un sanguinoso conflitto. Fra i superstiti, un giovane comandante di una delle navi schiaviste, parente di Hawkins: Francis Drake.

Tutta questa tristissima storia ha origine nella legalizzazione più o meno occulta di navigli fuorilegge, accettata in sede diplomatica quale strategia concepita in Inghilterra per vincere la piaga millenaria della pirateria. È rimasta nella tradizione del diritto britannico, della common law, la regolamentazione legale dei reati che non si riesce ad eliminare, secondo la concezione della politica come “arte del possibile”.

Naturalmente Elisabetta, fingendo di non riuscire nell’impresa di redimere e sottomettere alle leggi del regno quelle milizie navali, di fatto le impiegava col ruolo di “barbari al servizio dell’impero”. Così come nei secoli i re si sono serviti di mercenari e briganti, e i servizi segreti di molti stati post-moderni armano organizzazioni terroristiche per perseguire i propri scopi, la monarchia inglese impiegava i corsari, coprendo legalmente le missioni concordate.

L’emissione delle lettere di corsa[45] costituiva una legittimazione militare temporanea e rinnovabile di mercenari del mare per il compimento di “azioni di guerra di corsa” ai danni delle navi dei paesi coloniali cattolici e fu abolita solo nel 1713 con il trattato di Utrecht. Il conferimento di questa autorizzazione è un tipico strumento politico elisabettiano perché si basa sulla fedeltà alla sovrana e sulla convenienza dello stato. I corsari potevano avere nelle loro fila pirati e galeotti evasi dalle patrie galere, avventurieri in cerca di fortuna e ogni sorta di delinquente purché avesse abilità di navigatore e soldato; la loro coscienza sporca non avrebbe contaminato l’immagine del paese e il prestigio della regina, che continuava a intrattenere buoni rapporti con i sovrani degli stati ai quali i suoi corsari saccheggiavano e incendiavano le navi.

Elisabetta poteva candidamente definire i corsari una sciagura, parlando coi re di Spagna e Portogallo, e allo stesso tempo nominare Sir Francis Drake capo dei Sea Dogs, il più temuto naviglio di predatori dell’Atlantico, in segreto costituito e registrato quale unità speciale della Royal Navy del Regno d’Inghilterra.

 

 

 

 

 

[continua]

 

 

 

 

L’autore della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura degli scritti di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Giuseppe Perrella

BM&L-30 ottobre 2021

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[1] Lord Acton et al., The Cambridge Modern History (I-V), III, p. 289, Cambridge University Press, Cambridge 1910.

[2] James Anthony Froude, Reign of Elizabeth, I, p. 120, J. M. Dent & Sons, London 1932.

[3] J. E. Neale, Queen Elizabeth, p. 61, Bedford, London 1934.

[4] Cfr. Will e Ariel Durant, L’Apoteosi Inglese, libro I, in L’Avvento della Ragione, Vol. I, op. cit., p. 16.

[5] Cfr. Will e Ariel Durant, op. cit., p. 16.

[6] Cristopher Hatton in Shakespeare’s EnglandAn account of Life & Memories of his Age, I, p. 80, Oxford at Clarendon Press, 1926.

[7] Cfr. William McDougall, The Group Mind, Cambridge at The University Press, London 1927. È significativo il fatto che a Londra questo libro si vendeva durante le cinque conferenze tenute in quella città da Freud, che insegnava con la psicoanalisi l’estremo opposto, ossia la centralità della vita intrapsichica con i suoi processi inconsci.

[8] Non è un caso che gli storici etichettino come “elisabettiano” ogni protagonista della cultura del periodo, come lo stile delle opere emblematiche di quella temperie inglese.

[9] Primo fra tutti William Cecil, consigliere e segretario che servì la corona per oltre quarant’anni.

[10] J. E. Neale, Queen Elizabeth, op. cit., pp. 75-76.

[11] Shakespeare’s England, I, op. cit., p. 5,

[12] J. E. Neale, Queen Elizabeth, op. cit., p. 386. Un giudizio probabilmente influenzato da ammirazione e devozione.

[13] Sostenne il metodo induttivo derivato dall’esperienza in antitesi al metodo deduttivo cartesiano. Nelle prassi scientifiche contemporanee entrambi i metodi sono ritenuti validi nelle condizioni appropriate e non considerati in antitesi.

[14] Cfr. Thomas Hobbes, Leviatano (2 voll.), II, pp. 542-576, Fabbri Editori, Milano 1996.

[15] Will e Ariel Durant, La Grande Regina, p. 21, (L’Apoteosi Inglese, libro I), in L’Avvento della Ragione, Vol. I, in Will Durant (a cura di), Storia della Civiltà, Edito-Service Editore, Ginevra per Arnoldo Mondadori, Milano 1963. Equivale a dire: qualunque fosse la quantità di sapere posseduto era quella giusta, perché essendo lei la perfezione è su di lei che si misura il giudizio e non viceversa.

[16] J. E. Neale, Queen Elizabeth, op. cit., p. 26.

[17] Chute, Shakespeare of London, p. 145.

[18] Will e Ariel Durant, La Grande Regina, op. cit., p. 21.

[19] Will e Ariel Durant, La Grande Regina, op. cit., p. 22.

[20] Oggi si tende a descrivere questo spettacolo secondo il genere creato da Ben Johnson e lo si confonde con le parate di maschere che fin dal Medioevo presentavano a corte allegorie celebrative dei sovrani. Il nuovo spettacolo giunto dall’Italia in quegli anni è descritto come l’ho riportato nei testi inglesi dell’epoca.

[21] John Lingard, The History of England, VI, p. 321, J. Mawman, London 1825.

[22] Will e Ariel Durant, op. cit., p. 23.

[23] Will e Ariel Durant, op. cit., p. 21.

[24] Cfr. Will e Ariel Durant, op. cit., p. 21.

[25] Cfr. James Anthony Froude, Reign of Elizabeth, IV, op. cit., p. 62.

[26] James Cholmondeley Thornton, Table Talk from Ben Johnson to Leigh Hunt, p. 9, J. M. Dent & Sons, London 1934.

[27] Non rende “inadatta all’uomo”, può solo rendere difficile e un po’ doloroso il primo coito.

[28] Hallam, Constitutional History of England I, p. 133,

[29] J. E. Neale, Queen Elizabeth, p. 80, Bedford, London 1934.

[30] Read, Mr. Secretary Cecil and Queen Elizabeth, cit. in Will e Ariel Durant, op. cit., p. 18. Si ipotizza il consulto con un altro medico che l’abbia rassicurata sulla possibilità di generare.

[31] Will e Ariel Durant, op. cit., p. 20.

[32] La Virginia, ribattezzata con Cromwell “Commonwealth Virginia”, che comprendeva l’attuale Kentucky e la Virginia Occidentale, fu la prima delle tredici colonie che poi si ribellarono al dominio britannico e fondarono gli Stati Uniti d’America. Durante la guerra civile, che portò alla condanna a morte di Carlo I, la Virginia era schierata con il sovrano.

[33] Froude, Reign of Elizabeth, I, p. 103, cit. in Will e Ariel Durant, op. cit., p. 19.

[34] Froude, Reign of Elizabeth, I, p. 491, cit. in Will e Ariel Durant, op. cit., p. 20.

[35] Secondo alcuni per cicatrici da vaiolo, secondo altri per semplice acne giovanile.

[36] Cfr. James Anthony Froude, Reign of Elizabeth, I, op. cit., p. 300.

[37] Cfr. Will e Ariel Durant, op. cit., p. 21.

[38] Cfr. John Aubrey, Brief Lives, p. 305, Oxford 1693 (3 volumes in folio) at Bodleian Library (MSS Aubrey 6-8); è incluso anche nella raccolta di biografie 1669-1696 pubblicata dal rev. Andrew Clark (Clarendon Press, 1898). Ho consultato anche i due volumi della prima edizione integrale che include tutte le biografie di Aubrey: Bennett Kate (editor), brief lives with An Apparatus for the Lives of our English Mathematical Writers, Oxford University Press, Oxford 2015.

[39] Cfr. John Aubrey, Brief Lives, op. cit., idem.

[40] In questa materia, le vie del liberalismo inglese precederanno di molto quelle del liberalismo francese, che però avrà ben altra profondità culturale.

[41] Froude, Reign of Elizabeth, II, p. 466, cit. in Will e Ariel Durant, op. cit., p. 43.

[42] Frederick Louis Nussbaum, A History of the Economic Institutions of Modern Europe: An Introduction to Der Moderne Kapitalismus of Werner Sombart, p. 122, F. S. Crofts & Company, New York 1933.

[43] Da navi così trasformate sono stati trasportati venti milioni di schiavi africani (Cfr. Kevin Shillington, Abolition and the Africa Trade, in History Today 57 (3): 20-27, 2007).

[44] Cfr. Will e Ariel Durant, op. cit., p. 43.

[45] Dette anche patente di corsa o lettere di marca.